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ASTA N. 99 - 100 16.04.2016 17:00 NAPOLI Visualizza le condizioni
ASTA N. 99

- IMPORTANTI SCULTURE DA PRESEPE DEL XVIII E XIX SECOLO, PROVENIENTI DA UNA RACCOLTA PRIVATA.

SCHEDE ED ATTRIBUZIONI A CURA DELLA DOTTORESSA MARISA PICCOLI CATELLO

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ASTA N.100

- DIPINTI ANTICHI E DEL XIX SECOLO PROVENIENTI DA PRESTIGIOSE RACCOLTE PRIVATE.

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Esposizione:
da sabato 9 a venerdì 15 Aprile 2016
10:00 - 19:00
domenica 10: 10:00-14:00 / 16:00-20:00

CHIUSURA PRE-ASTA sabato 16 ore 14.00
  • Scoppetta Pietro (Amalfi,SA 1863 - Napoli 1920) Figura in controluce
    olio su tela, cm 47x36,5
    firmato in basso a destra: P.Scoppetta
    a tergo timbro Galleria Celestini ,Milano;cartiglio Galleria Bianchi d'Espinosa , Napoli

    Provenienza: Coll. privata, Bologna
    Esposizioni: Galleria d’arte Bianchi d’Espinosa, Napoli, 14-20 feb. 1981; Finarte Casa d’aste, 05-08 nov 1999 Napoli
    Bibliografia: Galleria d’arte Bianchi d’Espinosa 1981 n° cat. 78, tav. 33


    Durò molto poco il sogno del padre di Pietro Scoppetta d’avviarlo a studi di architettura, in quanto il giovane decise presto di dedicarsi all’arte pittorica soltanto; sarebbe anzi più preciso dire prettamente al disegno, poiché fin dalla più tenere età Scoppetta coltivò la passione dello schizzo, dell’impressione, in generale di tutto ciò che gli consentisse di fissare con rapidità le proprie idee ed ispirazioni, e questa tendenza persisté di fatto per tutta la sua carriera (sebbene egli diede più di una prova di saper comporre dipinti ben studiati e molto raffinati), tanto che opere dell’autore sono oggi sparse in ogni dove nonché furono frequenti i suoi impegni come illustratore.
    Prima di compiere studi accademici a Roma Scoppetta fu innanzitutto allievo a Maiori di Gaetano Capone ed in un secondo momento di Giacomo di Chirico, quindi già ebbe contatti con gli artisti napoletani prima di trasferirsi definitivamente nel capoluogo partenopeo nel 1890. La grande città diede forma nuova alla sua arte, via via sempre più elegante; la frequentazione dei più elitari salotti intellettuali locali fece il resto: Pietro divenne il conteso ma entusiasta ritrattista delle dame del Caffè Gambrinus e non solo; nella decorazione della celebre birreria, del resto, era stato coinvolto direttamente insieme a nomi del calibro di Migliaro, Dalbono, Brancaccio e Lord Mancini.
    La meta successiva non poté che essere Parigi, al tempo centro nevralgico dell’arte mondiale nonché vera e propria città ideale nei sogni di molti artisti di scuola napoletana. Nella Ville Lumière Scoppetta divenne innanzitutto l’interprete delle mode ricercate, delle pellicce e dei gioielli, delle vetrine, ed anche gli scorci cittadini che egli decise di ritrarre sembrano in effetti essere filtrati dagli interni delle neonate Galeries Lafayette; al contrario i ritratti femminili
    s’allontanarono dai locali affollati e chic per concentrarsi piuttosto in atmosfere più intime e dolci, ma non per questo meno sensuali. Stilisticamente parlando Scoppetta non mutò radicalmente quanto maturato in precedenza a Napoli (un bagaglio che anzi rimase prepotentemente cristallizzato nel suo modo di dipingere), come accadde invece per tanti suoi compagni, ed è pertanto appropriato nel suo caso parlare piuttosto di una naturale evoluzione di quel suo caratteristico tratto impressionistico, che si fece allora ancora più sintetico nell’adattarsi alla rappresentazione di immagini le quali, piuttosto che volersi eternare, venivano a coincidere semplicemente alle rapide dinamiche quotidiane della metropoli, quasi fossero fatti di cronaca.
    Proprio per rispondere a questa necessità di documentare l’attualità, di ritrarre la viva e varia umanità del mondo, Scoppetta prese a viaggiare con maggiore frequenza per l’Europa: Londra, Berlino, Montecarlo, tanto per citare alcune
    tappe. Solo nel secondo decennio del Novecento possiamo immaginarci l’artista di nuovo in Italia stabilmente, stando alle sue costanti partecipazioni a tutte le annuali Promotrici napoletane e non solo: di grande importanza ad esempio furono i soggiorni espositivi a Roma, ove il pittore strinse amicizia con l’impresario Pietro Carrara e sua moglie, la
    marchesa Maria Valdambrini, alla quale Scoppetta si legò poco dopo in una straziante storia d’amore.
    La Valdambrini appare (spesso non esplicitamente) in molte opere dell’autore, probabilmente anche in quella proposta, sebbene non sia possibile azzardare identificazioni senza una documentazione certa. Si tratta in ogni caso di dipinti tutti dedicati al mondo femminile, lontani come detto dai fumi di Parigi eppure eredi delle trovate pittoriche colà sviluppate nella composizione, nell’inquadratura, soprattutto nel ritmo vibrante dei toni, qui quasi somiglianti nella loro vivacità più a pastelli che ad oli, sorprendenti nelle loro impressionistiche variazioni se si pensa che, parole dell’autore stesso, egli fu solito adoperare sulla tavolozza solo tre colori: l’oltremare scuro, il giallo cadmio, la garanza rosa. Disse bene dell’artista allora il critico Bracco in occasione di una mostra scoppettiana del 1918: «con una fatica minima, con
    minimi mezzi egli, ormai, ottiene un risultato massimo».
    Stima minima €16000
    Stima massima €22000
  • Mancini Antonio (Roma 1852 -1930)
    Ritratto del pittore Trussardi Volpi
    olio su tela, cm 60x100
    a tergo cartigli: Mostra A. Mancini, Accademia Tadini, Lovere 1997 n. 19; Mostra del Novecento,Galleria Vincent, Napoli 2010 n. 58

    PROVENIENZA : Coll. Privata, Milano; Art Consulting, Modena; Coll. Privata, Napoli

    ESPOSIZIONI: Antonio Mancini (1852-1930). Il collezionismo del suo tempo in Lombardia, Lovere,Accademia Tadini, 17 Maggio - 31 Agosto 1997; ART CONSULTING. Raccolta di dipinti e sculture dell'Ottocento e del primo Novecento, Modena, Palazzo Cremonini, 18 Maggio - 18 Giugno 2006; Novecento, Napoli, Galleria Vincent, 24 Aprile - 8Maggio 2010.

    BIBLIOGRAFIA: Antonio Mancini. Il collezionismo del suo tempo in Lombardia, catalogo della mostra a cura di S.Rebora, Lovere, 1997; Raccolta di dipinti esculture dell'Ottocento e del primo Novecento, ART CONSULTING, Modena, 2006, Vol. IV, pp. 44-45; OTTOCENTO Catalogo dell'arte Italiana dell'Ottocento , Ed. Metamorfosi Milano 2009, tav. a colori; Novecento, catalogo della mostra, Edizioni Vincent, Napoli, 2010, pp. 78-79; D. Di Giacomo, Antonio Mancini: la luce e il colore, Ianieri Editore, Pescara, 2015, tav. LXIX, p. 115


    Romano di nascita, Antonio Mancini visse la sua infanzia a Narni, città d’origine del padre, per poi trasferirsi adolescente a Napoli, forse proprio per ricevere una adeguata educazione nelle arti (nel 1865, anno del suo arrivo in città, risulta già iscritto al Real Istituto di Belle Arti) cui s’era avvicinato fin dalla più tenera età.
    Già prima dell’avviamento agli studi accademici tuttavia il giovane Antonio conobbe Vincenzo Gemito (mentre agli anni di formazione risalgono le amicizie con Michetti e Gaetano Esposito), col quale si instaurò un lungo sodalizio che durerà nel tempo; proprio a questa frequentazione ed a quella dello studio del grande Stanislao Lista fu dovuta la prima poetica manciniana, rivolta non solo alla rappresentazione del reale ma più nello specifico a quella del mondo popolano partenopeo: rafforzato sul piano formale dagli insegnamenti di Domenico Morelli, Antonio partorì infatti il suo primo capolavoro, Terzo comandamento (Fremiti di desiderio), prima e molto ammirata opera di una lunga serie dedicata agli scugnizzi ed alla loro infelice esistenza (in perfetta linea con la produzione coeva gemitiana), miseria poeticamente sublimata tuttavia e priva pertanto di una reale intenzione di denuncia sociale.
    Ai rapporti amicali si affiancarono ben presto quelli mecenatizi, non inferiori numericamente e anzi assai numerosi, che determinarono di fatto la fortuna di Mancini per tutta la sua vita. Il primo di essi fu con i Cahen, che aprirono all’artista le porte dei Salon parigini senza che egli fosse tuttavia costretto a recarsi in prima persona nella Ville lumière.
    Una prima sosta nella capitale francese avvenne effettivamente solo dieci anni dopo il trasferimento a Napoli e su insistente invito di Adolphe Goupil, il celeberrimo mercante che Antonio conobbe quando gravitava nella cerchia del pittore Mariano Fortuny (a Portici nel 1874); Parigi fu nuovamente meta nel 1877 di un secondo viaggio, quest’ultimo però dagli esiti quasi tragici, funestato dai debiti e dalla rottura con l’amico di sempre Gemito.
    Di ritorno a Napoli i disturbi psichici di Mancini, a lungo covati, esplosero costringendolo al ricovero in manicomio fino al 1882, periodo in cui non cessò affatto l’attività artistica, che anzi s’arricchì di numerosi ritratti ed autoritratti (vera e proprio costante nella produzione dell’autore). Nel corso dell’anno successivo il pittore si trasferì definitivamente nella natia Roma, dove entrò in contatto con il marchese Giorgio Capranica del Grillo nonché con le famiglie Sargent e Curtis, che attraverso alterne vicende lo condussero fino a Londra: quest’ultima sosta fu foriera ancora una volta di importanti contatti tanto artistici che mecenatizi (da ricordare quello con Mary Hunter, di cui fu eseguito un celebre ritratto).
    Facendo a lungo spola tra Inghilterra ed Italia Mancini tornò definitivamente in patria solo dal 1908: cominciò allora un periodo lavorativo prima sotto il mercante Otto Messinger, poi sotto l’industriale francese Fernand du Chêne de
    Vère; cominciò tuttavia anche un frenetico susseguirsi di riconoscimenti ufficiali e tributi espositivi: la personale a Venezia nel 1920, l’esposizione alla galleria milanese Pesaro del ‘27, la grande retrospettiva all’Augusteo di Roma dello
    stesso anno. Già accademico di San Luca dal 1913, inoltre, Mancini fece anche in tempo ad essere accolto nel ’29 nella nascente Reale Accademia d’Italia, giusto un anno prima della sua scomparsa.
    All’arco del primo decennio del XX secolo deve risalire l’opera proposta, secondo una datazione basabile innanzitutto sulla biografia del soggetto ritratto, il pittore Trussardi Volpi appunto, attestato a Roma e proprio tra i frequentatori
    dello studio di Mancini nei primi anni del Novecento, come dimostra anche un’altra e forse più celebre tela manciniana coeva che pure raffigura l’artista bergamasco (in una posa poi assai simile). Anche sul piano dello stile risulta del resto
    rafforzata quest’ipotesi: con la guarigione dal disturbo mentale che aveva chiuso il periodo napoletano, infatti, termina anche quel citato ciclo di opere dalla vivida connotazione sentimentale e anzi patetica, a favore di rappresentazioni in
    tutti i sensi più colorite, segno di una riconquistata distensione spirituale; le figure umane si fanno più voluminose, pesanti, si può dire scultoree, a rivaleggiare poi in questo caso specifico con le statue vere e proprie che circondano il protagonista dell’opera (l’affollarsi di oggetti accessori è a dire il vero una costante nei quadri del Mancini) e che come lui emergono dalla superficie del medium “come rilievi cartografici di catene montuose” (meravigliosa
    espressione adoperata da un critico del tempo). L’accumulazione di materia pittorica serviva in effetti all’autore come alternativa al più tradizionale uso delle mezze tinte per una resa più realistica dei giochi chiaroscurali che dovevano
    animare le rappresentazioni, e l’effetto ottico risultante finisce così davvero per superare finanche le apprezzate sintesi impressionistiche, riuscendo a coniugare alla visione d’insieme una chiara e precisa definizione analitica delle singole
    parti della composizione.
    Stima minima €20000
    Stima massima €30000
  • Brancaccio Carlo (Napoli 1861 - 1920)
    Avenue de l’Opéra, Paris
    olio su tela, cm 46x55
    firmato e iscritto in basso a destra: Carlo Brancaccio Paris

    Provenienza: Coll. privata,Napoli
    Bibliografia: Ottocento Catalogo dell’Arte Italiana. Ottocento – Primo Novecento n.42, Milano 2013, pag.179.


    Per chi abbia un qualche interesse per la pittura dell’Ottocento, il nome di Carlo Brancaccio evoca immediatamente una precisa poetica e una cifra inconfondibile. Tuttavia, come ancora accade per molti maestri che proiettarono la
    propria operosità tra la fine del secolo XIX e i primi due decenni del successivo, non esiste una monografia - sia pure dilettantesca o amatoriale - e la stessa bibliografia è estremamente povera. Così, per chi voglia saperne di più, una buona fonte rimane un libro di oltre mezzo secolo fa: «Lo avevano destinato allo studio delle matematiche, ma ben presto se ne mostrò poco sodisfatto [sic], finché nel 1883, quando cioè aveva compiuto ventidue anni di età, si mise a studiare la pittura […]. Egli spesso narra di dovere molti consigli e non pochi esempi al Dalbono. Espose per la prima volta a Londra, nel 1888, un dipinto Marinella, che è un bel ricordo di Napoli. Da parecchi anni vive a Parigi, e di là ha mandato quadri a moltissime Esposizioni» (Giannelli, Artisti napoletani viventi, 1916). Salvatore di Giacomo, scrivendo di Brancaccio, osservò che «le opere di questo artista di grande e sicuro talento nascono da un piacere diretto
    che egli sente davanti la natura e davanti al bello: Brancaccio quando lavora si diverte particolarmente: i suoi soggetti di plein air l’interessano, lo seducono, ed egli vi entra con foga, passione e curiosità. Non ha mai conosciuto né scuola
    né accademia, fa da sé. Egli ha tirato dal nostro adorabile paese, dalla nostra viva e vera Napoli le fisionomie le più strane, e le più caratteristiche per suggestionare i temperamenti più differenti». “Riscoperto” dagli stranieri per i suoi animatissimi scorci parigini che fanno tanto Belle Epoque, amatissimo dai partenopei per la solarità delle sue scene della vecchia Napoli, talvolta derivate da modelli fotografici, benché, com’egli stesso ammetteva, fosse debitore ai consigli di Dalbono, seppe subito conquistarsi un linguaggio personale che, volendo ad ogni costo riferirlo alle suggestioni del ricco filone della pittura partenopea tardo-ottocentesca, potrebbe definirsi equidistante tra Migliaro e Dalbono, ma arricchito dalle particolari atmosfere dei luoghi rappresentati. Ma la produzione più cara ai collezionisti rimane quella relativa al suo lungo soggiorno parigino, a cui appartiene questo quadro, “Avenue de l’Opéra”, che riprende l’omonima piazza antistante il teatro e che topograficamente diventa un’importante testimonianza per il fatto che è assente l’uscita della stazione della metropolitana (Opéra) che sarà inaugurata solo il 19 ottobre del 1904. Il che ci permette di fissare
    antecedentemente a questa data la realizzazione dell’opera. Inoltre, osservando il quadro, sulla sinistra si potranno scorgere le vetrine del famoso Café de la paix, all’angolo tra il Boulevard des Capucines e la Place de l’Opéra, la stessa dove, per lungo tempo, il famoso mercante Adolphe Goupil aveva impiantato la sua celebre Maison.
    Stima minima €10000
    Stima massima €18000
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933) Venditore di souvenirs
    olio su tela, cm 60x46,5
    firmato, datato e iscritto in basso a sinistra: A. Campriani 82 Napoli

    Provenienza: Coll. privata,Napoli


    Esposizioni: New York, 1995; Livorno, 1998-99

    Bibliografia: Catalogo Sotheby’s, 10 Febbraio 1995 New York, pag. 259; Aria di Parigi nella pittura italiana del secondo Ottocento, Catalogo mostra“Atelier Italia sulla Senna”, Museo Giovanni Fattori, 3 dicembre 1998 – 5 aprile 1999, Livorno, tav. a colori n.75; R. Caputo, L’Ottocento napoletano nelle collezioni private, Napoli 1999, fig. 34, p.92; R. Caputo, La Scuola di Resinanell’Ottocento napoletano, Napoli 2013, tav. 105, p. 92



    Diversamente da molti artisti italiani trasferitisi a Parigi, il pittore ternano firmò un contratto in esclusiva con la Maison Goupil senza però risiedere stabilmente nella capitale francese, salvo che per pochi mesi. I rapporti commerciali tra l’artista umbro e lo scaltro mercante Adolphe Goupil, conclusisi nel 1884, cominciarono nel 1870 per il tramite di Giuseppe De Nittis, che Campriani aveva conosciuto a Napoli nel 1862 e con il quale aveva condiviso l’esperienza della Scuola di Resina. Andava così ad aggiungersi alla già nutrita colonia degli artisti meridionali trattati da Goupil
    sul mercato internazionale. Su di essi esercitava in genere notevole influenza l’esempio di Mariano Fortuny, a cui, da più parti (da Zandomeneghi a Cecioni), si attribuiva la responsabilità di aver condizionato le nuove generazioni di artisti italiani a Parigi, verso episodi di “genere” di sapore esotico o locali, attraverso una pittura rifinita, al limite del virtuosismo. Negli anni dell’esclusiva con il mercante francese, cui certo appartiene anche questa tela del 1882, anche Campriani dovette indirizzarsi verso una produzione di scene di ambientazione mediterranea, a cui adattare un’abile rilettura, tale da soddisfare le richieste del mercato internazionale a cui prevalentemente si rivolgeva Goupil.
    In quest’opera, dunque, la narrazione di una pittoresca scena di vita meridionale è sapientemente costruita e condotta con accuratezza. Le figure, descritte con vivezza, si muovono davanti all’importante Chiesa di Santa Maria Maggiore
    di Siponto a Manfredonia, una cittadina a circa 40 chilometri da Foggia. La chiesa, in stile romanico-pugliese, fu ricostruita sui resti dell’antica Cattedrale rasa al suolo da un terremoto nel 1200 e per secoli ha custodito l’icona di Maria Santissima di Siponto, databile all’VIII secolo e trasferita nel 1973 nella Cattedrale di Manfredonia, per ragioni di sicurezza. In questa opera, Campriani va oltre il rilievo architettonico, ponendo l’accento sul “momento” celebrativo connesso alla Cattedrale. Quello che, a fine agosto di ogni anno, ruota intorno alla processione dell’immagine di Santa
    Maria Santissima di Siponto, patrona di Manfredonia. Evento dove il sacro ed il profano si mescolano per colorare ogni via e piazza di bancarelle e fuochi pirotecnici in onore della sacra icona. Alla quale, le figure dipinte in primo piano e vestite a festa, sono venute a rendere omaggio, senza farsi mancare un souvenir della festa che lo scaltro e variopinto
    venditore propone loro. Un’altra riflessione emerge poi dall’anno di composizione de Il Venditore di Souvenirs: l’82.
    La data apposta di pugno dall’artista sulla tela confermerebbe un reale soggiorno di studio del Campriani in Puglia, in quanto sono riferibili a quei luoghi almeno altri due famosi quadri come Ritorno dal mercato e la strada Tra Foggia
    e Manfredonia (Cfr. Emporium, giugno 1903, pp. 406 e 408). Probabilmente l’esecuzione di quelle opere gli venne suggerita proprio da Goupil, memore dei successi riscossi al Salon di Parigi dal De Nittis, qualche anno prima con la sua Strada da Napoli a Brindisi a cui, per il taglio delle scene e per le scelte luministiche, i due quadri illustrati
    dall’Emporium, sembrano rendere omaggio.
    Stima minima €32000
    Stima massima €48000
  • Santoro Rubens (Mongrassano CS, 1859 - Napoli, 1942)
    Gli zingari
    olio su tela, cm 52x40
    firmato in basso a destra: Rubens Santoro
    a tergo cartigli: Zingari Dalla collezione particolare dell'autore; Primo premio con medaglia d'oro in Italia - Chicago e Parigi; Inv. n. 282 Proprietà Avv. Gregorio Armiero; L'Arte nella vita del Mezzogiorno d'Italia Mostra di Arti figurative e di Arti applicate dell'Italia Meridionale - Roma 1953

    PROVENIENZA : Napoli, collezione Armiero; Napoli, Galleria d'Arte Vittoria Colonna; Napoli, collezione privata


    ESPOSIZIONI:World's Fair: Colombian Exposition, Chicago, Illinois, Stati Uniti d'America, 1893; Salon, Parigi, Francia, 1896; Prima Esposizione Italiana, Leningrado, Russia, 1898; L'Arte nella vita del Mezzogiorno d'Italia. Mostra di Arti figurative edi Arti applicate dell'Italia Meridionale, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 Marzo - 31 Maggio 1953; Ottocento e Novecento, Napoli, Galleria d'Arte Vittoria Colonna, 2006.


    BIBLIOGRAFIA:L’Arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia. Mostra di Arti figurative e di Arti applicate dell’Italia Meridionale (Roma, Palazzo delle Esposizioni, Marzo-Maggio 1953), catalogo della mostra, De Luca, Roma, 1953, p.81, n. 13; Catalogo Bolaffi della pittura italiana dell’Ottocento, Torino, 1968, p. 412; Ottocento e Novecento, catalogo della mostra a cura di Rosario Caputo, Galleria d’Arte Vittoria Colonna, Napoli, 2006, pp. 26-27.



    Figlio d’arte, dal padre intagliatore (dotato localmente di una certa fama) Rubens Santoro fu educato ai primi rudimenti di pittura. Al 1870 risale probabilmente il suo trasferimento a Napoli, seguito poco dopo dall’iscrizione al locale Real
    Istituto di Belle Arti, ove il ragazzo divenne pupillo di Domenico Morelli: di quest’ultimo il Santoro seguì rigidamente i dittami anche quando, ad appena un anno dall’inizio dei suoi studi accademici, il giovanissimo ma assai ribelle
    artista decise di abbandonarli. La precocissima partecipazione del Santoro alla Promotrice del 1874 mostra dunque con Un balcone, Un’impressione e Una fanciulla che ride, la sua adesione al vero. In quello stesso anno intanto il giovane conobbe Mariano Fortuny (in quegli anni residente a Portici), rimanendone come tanti altri molto colpito
    dall’arte nonché dai benevoli incoraggiamenti: «Tu hai cominciato dove altri finiscono», gli scrisse lo spagnolo, ed in effetti Rubens si trovò per sorte ad operare quando, deceduto Gigante, era tuttavia ancora vivo lo spirito della Scuola di Posillipo per mano di Gonsalvo Carelli, nonché imperversavano i componenti della repubblica porticese,eppure l’artista riuscì a farsi partecipe di quella nuova pittura di paesaggio che nelle tele di Caprile, Migliaro, Casciaro, Scoppetta, veniva declinata secondo modi particolarmente soggettivi ed intimistici. Se gli esiti in cui Santoro riuscì
    a conciliare le teorie palizziane e morelliane con le idee di Fortuny apparvero in pubblico alcuni anni dopo, l’artista fu già intanto alla Nazionale di Napoli del 1877. Tre anni dopo Rubens fu anche alla grande Esposizione di Torino, e deve risalire a quel viaggio per il Settentrione italiano la scoperta per lui tanto importante delle vedute di Venezia e
    Verona: le possibilità offerte da queste due città di un’ulteriore sperimentazione del colorismo pittorico a lui tanto caro portarono infatti ad una nuova evoluzione tanto della poetica che della tecnica dell’artista; le sognanti rappresentazioni
    del capoluogo veneto in particolare riscossero grande successo in ambito internazionale (anche grazie alla mediazione del celebre mercante Goupil), conducendo il Santoro a molteplici viaggi (ed esposizioni) in giro per l’Europa.
    La stessa tela proposta ha in effetti una lunga storia espositiva all’interno della produzione del Santoro. Fu già in mostra probabilmente alla citata Nazionale napoletana del 1877 col nome La grotta degli zingari, se il commento dello Schettini a quest’ultima opera può considerarsi calzante al soggetto qui rappresentato: l’autorevole storico dell’arte pare infatti cogliere perfettamente il raffinato gioco chiaroscurale col quale sono tratteggiati i personaggi del quadro
    nei loro variopinti costumi. La componente emotiva (intima, come si diceva) dell’opera è in effetti caratteristicamente affidata dall’autore alla luce, e qui specialmente al suo riflettersi sui particolari, quali vasi, stoviglie, lampade, che
    concretizzano quell’atmosfera domestica che il Santoro intende valorizzare. Sappiamo comunque che La grotta degli zingari ebbe notevole successo e che pertanto l’artista fu formalmente invitato ad esporla nuovamente all’Universale di Parigi del 1878. Similmente, dalla descrizione di un anonimo redattore del Corriere di Napoli possiamo supporre
    la presenza dell’opera anche alla Nazionale di Palermo del 1891-92, dove vinse il primo premio; essa valse al proprio autore una seconda medaglia aurea l’anno seguente all’Esposizione Mondiale Colombiana di Chicago, ed infine una terza probabilmente al Salon parigino del 1896.
    Stima minima €13000
    Stima massima €18000
  • Dalbono Edoardo (Napoli 1841 - 1915)
    L'arrivo della tempesta
    olio su tela, cm 58x96
    firmato in basso a sinistra: E. Dalbono
    a tergo: timbro Coll. Mele, Napoli

    Provenienza: Coll. Mele, Napoli; Coll. privata, Napoli


    Edoardo Dalbono rientra in quella categoria fortunata di artisti i quali non ebbero la stretta necessità di frequentare accademie per intraprendere il mestiere, magari patendo la fame per mantenersi negli studi, poiché nato in una famiglia
    che poteva vantare numerosi letterati fu avviato al mondo della cultura fin dalla più tenera età, seguito da precettori o più semplicemente dal padre, dipendente pubblico e poeta estemporaneo; questa figura fu in effetti determinante per il futuro del Dalbono, il quale innanzitutto principiò la propria produzione artistica con piccole illustrazioni ispirate proprio agli scritti folcloristici del padre, poi fu grazie ai contatti di quest’ultimo col mondo dell’Arte se il giovane pittore poté conoscere i maestri napoletani Giuseppe Mancinelli e Nicola Palizzi.
    Tutta la differenza intercorrente tra i due pittori di riferimento del Dalbono si riscontra nelle prime sue opere esposte, oscillanti tra composizione storica e paesaggismo naturalistico (San Luigi re di Francia soffermatosi sotto di una quercia
    rende giustizia ad una famiglia che riverente a lui ricorre, oggi irreperibile, e Studio di un mulino). La seconda tendenza dominerà poi di fatto la maggior parte della produzione dell’artista, tutto rapito dalle vedute campane, riprodotte principalmente seguendo dittami e metodi della Scuola di Posillipo. Dalbono può tuttavia a ragione considerarsi un
    radicale innovatore rispetto alla cerchia di Gigante, se superò di fatto la più stretta adesione alla realtà per elevarsi invece ad atmosfere più oniriche e trasognate, pertinenti piuttosto alla dimensione del mito: è proprio poetizzando il
    mondo naturale che l’artista pervenne alla sua opera probabilmente più famosa, La leggenda delle Sirene, pluripremiata e di grande successo presso i collezionisti (tanto che se ne moltiplicarono a dismisura le riproduzioni).
    È noto inoltre quanto il mercato del tempo apprezzasse le rappresentazioni dei luoghi simbolo del Grand Tour, così accadde che Dalbono (come altri suoi contemporanei) fu contattato da Goupil (per intercessione di Morelli e De Nittis) che lo volle in esclusiva per ben nove anni; il trasferimento a Parigi fu tuttavia molto difficoltoso e sofferto ed
    il nostro non smise di scrivere nella propria corrispondenza quanto gli mancasse Napoli e soprattutto il suo mare ed i suoi colori. Logico allora che dopo l’agognato ritorno in patria l’artista non volle allontanarsene mai più fino alla fine dei suoi giorni, affiancandosi intanto alla tradizionale attività pittorica quelle assai ricche di decoratore (nell’ambito dei progetti legati al Risanamento), illustratore (principalmente per l’Illustrazione italiana) nonché di critico storicoartistico (celebre la sua commemorazione di Morelli). Uno tra i molti scritti dedicatogli dopo la sua scomparsa definisce Dalbono “il pittore della luce”, ed in effetti a ben guardare l’intera sua produzione si nota facilmente come il suo sguardo in fin dei conti si sia posato là dove batteva
    più forte il sole, o comunque dove bagliori chiari esaltassero le forme altrimenti inghiottite dall’oscurità (basti pensare alle eruzioni vesuviane), in una trasfigurazione (verso il mondo del sogno, si diceva) del percepito che viene restituito al compiaciuto spettatore nei suoi aspetti più vivaci, più seducenti, in sostanza più belli. Non fa eccezione l’opera proposta, che è del resto la declinazione di un tema assai caro all’ autore secondo poi il suo stile più caratteristico:
    la marina partenopea, con quella “curva vaghissima del golfo” (per citare il critico Pica), con le sue barche ed i suoi pescatori, si stende dinanzi l’osservatore sul mare piatto baciato dal sole, del tutto simile a quel che può vedersi
    nella spesso documentata Nel porto di Napoli o nella Festa della Madonna del Carmine; l’unico possibile disturbo è quella tempesta che dà il titolo alla tela, burrasca che è appunto solo in potenza e non ancora in atto proprio per non sconvolgere la ridente veduta, ma che del resto occupa la maggior parte della composizione offrendosi all’autore come
    occasione per sbizzarrirsi in una serie di sfumature coloristiche delicate e trasognanti che, come nell’opera Mare a Torre Annunziata esposta alla Prima Internazione di Venezia, culminano a partire dai più freddi celesti in un susseguirsi di rosa, aranci, gialli che sottintendono un sole invisibile allo spettatore ma pronto, dopo il maltempo passeggero, a risplendere nuovamente.
    Stima minima €30000
    Stima massima €40000
  • Caputo Ulisse (Salerno 1872 - Parigi 1948)
    L'inglesina
    olio su tela cm 86,5x65
    firmato e datato in basso a sinistra: U.Caputo 1911

    Provenienza: Coll. privata, Roma


    Esposizioni:New York, 1993

    Bibliografia: Catalogo Sotheby’s, 20 Gennaio 1993 New York, pag. 139





    Figlio di scenografo (il quale aveva realizzato le decorazioni del teatro Verdi di Salerno), Ulisse Caputo si spostò ben presto a Napoli per avviarsi, per volere proprio del padre (e nonostante poi alcuni dissesti finanziari), agli studi
    dell’Accademia di Belle Arti, sotto la guida del Morelli e del Lista. L’impianto accademico venne però in breve a noia al ragazzo, che prese a frequentare piuttosto i più dinamici atelier degli artisti locali, soprattutto quello di Gaetano
    Esposito, scontroso pittore che, coniugando insieme la lezione morelliana e quella realista di Filippo Palizzi, ne aveva portato la ricerca coloristica a livelli ancora ulteriori: attenzione, questa al colore, che influenzerà il giovane Caputo per
    tutto la vita.
    Risale alla fine del secolo la decisione di trasferirsi a Parigi (al tempo centro indiscusso di tutta l’arte mondiale) probabilmente a causa della sostanziale incomprensione cui erano andate soggette le opere del Caputo alle prime esposizioni napoletane (ma anche milanesi) cui egli prese parte. La Ville Lumière fu davvero la svolta per l’artista, che ivi incontrò la sua futura sposa, figlia di Angelo Sommaruga (noto protettore di D’Annunzio), aprendosi così le porte dei circoli intellettuali parigini più esclusivi nonché di quel sistema espositivo dei Salon in cui si succedettero molti
    quadri dell’artista salernitano, tanto apprezzati da finire finanche nei salotti di re ed imperatori (dopo aver conseguito svariati premi).
    Il successo di queste tele si deve tuttavia anche all’amore incondizionato che il Caputo sempre trasmise nel rappresentare i soggetti della maggior parte di esse, quelli legati cioè al teatro ed alla musica, interesse certamente sviluppato sin dalla
    più tenera età al seguito del padre. Tutto di quel mondo egli amò: le architetture e le decorazioni, le luci, il rapporto del pubblico con la ribalta e le ricche mise delle dame ingioiellate alle soirée.
    Questa grande passione di Caputo va tenuta presente anche nell’ammirare questa Inglesina: come è stato giustamente osservato, infatti, ogni quadro dell’autore può essere concepito come proiezione teatrale pur non rappresentandone espressamente gli scenari, e a ben vedere l’affascinante donna raffigurata è abbigliata davvero come se fosse prossima a recarsi alla volta del suo palchetto favorito, non prima però di aver completato quegli ultimi preparativi che danno occasione a Caputo per sbizzarrire la sua raffinata fantasia in tutta una serie di dettagli magistralmente riportati su tela,
    dal piccolo servizio da tè personale alle meravigliose collane che tridimensionalmente emergono dall’opera grazie a ricercate pennellate particolarmente materiche, fino alla misteriosa mascherina nera che ha dato nel tempo un titolo
    alternativo al quadro.
    Ad una prolungata osservazione dell’opera si comprende tuttavia come ancor più protagonista della bella damina sia qui quel colore che dall’arrivo a Parigi s’era vivacemente liberato e schiarito (sotto le influenze impressionistiche ormai imperanti) e la cui preziosistica ricerca (che, non smetteremo mai di sottolineare, sempre impegnò il Caputo) non
    fu mai volta esclusivamente alla piacevolezza visiva ma anzi ad audaci dissonanze luministiche (come già al tempo osservò il critico Pica) e appunto cromatiche (di cui L’inglesina è evidentemente felicissimo e significativo esemplare) che permisero all’artista di divincolarsi dai limiti imposti dalla semplice pittura di genere e di elevarsi indubbiamente al di sopra di essi.
    Stima minima €8000
    Stima massima €14000
  • Scuola del XVIII secolo
    Marina notturna
    olio su tela, cm 98x131
    Stima minima €4500
    Stima massima €7500
  • Vernet Claude Joseph attrib. (Avignone, 1714 – Parigi, 1789)
    Il naufragio
    olio su tela, cm 46,5x66
    Stima minima €6000
    Stima massima €9000
  • Solimena Francesco attrib. (Canale di Serino, AV 1657- Napoli 1747)
    Ritrovamento della Vera Croce
    olio su tela, cm 76x102
    Il dittico ha il merito di sintetizzare molteplici spunti provenienti da varie fonti letterarie ed artistiche del passato in merito alla leggenda della Vera Croce che sorresse il Messia nei suoi ultimi istanti di vita. Nella prima tela sta sulla destra Elena, madre di Costantino, orante al cospetto del legno, il quale al momento della rappresentazione non è stato ancora riconosciuto a tutti gli effetti (è infatti ancora visibile una delle altre due croci che avevano sostenuto i ladroni e che erano state sepolte con la prima) ma già preannuncia la propria sacralità occupando con prepotenza il centro della composizione. Sotto la Croce, tra gli scavatori (dei quali uno, dalle fattezze volutamente quasi angeliche, regge il Titulus crucis che pure fu recuperato in quell’occasione), sta il vescovo di Gerusalemme Macario, già in estasi alla visione della preziosa reliquia; sullo sfondo invece va preparandosi una battaglia, quella di Ponte Milvio tra Massenzio e Costantino, e quest’ultimo a capo delle proprie truppe indica tra meraviglia e speranza quanto sta svolgendosi in primo piano.
    Stima minima €5500
    Stima massima €8500
  • Solimena Francesco attrib. (Canale di Serino, AV 1657- Napoli 1747)
    Riconoscimento e venerazione della Vera Croce
    olio su tela, cm 76x102
    a tergo iscritto: Francesco Solimena S. Elena proprietà Giuseppe Casciaro
    Costantino infatti aveva saputo in sogno che solo portando il simbolo della Cristianità come vessillo avrebbe potuto trionfare sul proprio avversario, per cui è raffigurato nel secondo dipinto in un momento di raccoglimento spirituale prima di recarsi alla guerra. La Croce dunque è stata identificata come quella del Messia, essendo evidentemente già avvenuto il miracolo che ne ha permesso l’inequivocabile riconoscimento, come dimostra la donna che, precedentemente defunta su quel letto funebre che ora s’intravede vuoto sulla destra della composizione, abbraccia risorta la base del lignum vitae; gli altri personaggi (angeli compresi) sono pertanto colti in atteggiamento di devota venerazione, distinguendosi tuttavia fra tutti una figura dai tratti somatici così curati che è impossibile non considerare un ritratto: si tratta con ogni probabilità del committente del dittico,
    conquistatosi così la vita eterna, se non è possibile dire nell’Aldilà, almeno nella memoria imperitura dell’Arte.
    Stima minima €5500
    Stima massima €8500
  • Morandi Giovanni Maria (Firenze 1622 – Roma 1717) Scena sacra
    olio su tela, cm 49x74
    Stima minima €5500
    Stima massima €8500
  • Scuola Italiana del XVI secolo
    Madonna
    olio su tavola, cm 59x46,5
    Stima minima €4000
    Stima massima €6000
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