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ASTA N. 99 - 100 16.04.2016 17:00 NAPOLI Visualizza le condizioni
ASTA N. 99

- IMPORTANTI SCULTURE DA PRESEPE DEL XVIII E XIX SECOLO, PROVENIENTI DA UNA RACCOLTA PRIVATA.

SCHEDE ED ATTRIBUZIONI A CURA DELLA DOTTORESSA MARISA PICCOLI CATELLO

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ASTA N.100

- DIPINTI ANTICHI E DEL XIX SECOLO PROVENIENTI DA PRESTIGIOSE RACCOLTE PRIVATE.

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Esposizione:
da sabato 9 a venerdì 15 Aprile 2016
10:00 - 19:00
domenica 10: 10:00-14:00 / 16:00-20:00

CHIUSURA PRE-ASTA sabato 16 ore 14.00
  • Irolli Vincenzo (Napoli 1860 - 1949)
    Ritratto muliebre
    olio su tela, cm 74x74
    firmato in basso a destra: V. Irolli

    Provenienza: Coll. Gualtieri, Napoli; Coll.Privata, Napoli

    Esposizioni: 7-8 novembre 1929, Milano.
    Bibliografia: Cat. Galleria Scopinich, Maestri napoletani dell'800 nella Collezione Gualtieri, Rizzoli & C., Milano 1929
    Stima minima €6500
    Stima massima €12500
  • Celentano Bernardo (Napoli 1835 - Roma 1863)
    Il sacco di Roma
    olio su tela, cm 32x22,5
    firmato in basso a sinistra: Celentano
    a tergo timbro Gall. Giosi Napoli

    Provenienza: Coll. privata, Roma; Coll. privata, Napoli
    Esposizioni: Napoli, 1985; Napoli, 2002

    Bibliografia: Galleria Bianchi d’Espinosa, Catalogo n.75, Napoli marzo 1985, Tav..18; R. Caputo, Panorama pittorico napoletanodell’Ottocento, Catalogo mostra Hotel Excelsior Napoli n. 10, Galleria Vittoria Colonna, Napoli 2002, p. 38-39; G.L. Marini, Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento, ed. XXII, Torino 2004-2005, p. 219.



    Bernardo Celentano, allievo di Camillo Guerra presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli, esordì alla mostra borbonica del 1851. Dal 1852 cominciò a frequentare la scuola privata di Mancinelli, dedicandosi al nudo ma incominciando a rendere più complessi gli stati d’animo dei suoi personaggi, cercando di individuare e riproporre per di più il sentimento di ciascuno. Tuttavia su consiglio di Morelli e per uscire dalla gabbia dell’accademismo napoletano, Celentano, a giugno del 1854, si reca a Roma dove entra in contatto con Overbeck e i pittori nazareni. Nel 1855 Celentano decide di accompagnare Morelli a Firenze dove ebbe modo di frequentare il Caffè Michelangelo, cominciando ad interessarsi alla poetica del “vero”, senza tuttavia rinnegare il bagaglio dell’Accademia: la prospettiva, lo studio delle luci, l’uso di sfondi di paesaggio all’aperto e la cura filologica delle ricostruzioni d’epoca. Nel 1856 in Lombardia e nel Veneto studiò i coloristi del Cinquecento e conobbe Stefano Ussi a Padova e i fratelli Induno a Milano. Bernardo Celentano visse la sua breve vita di ventotto anni nella fatica di una ricerca impossibile: metter d’accordo gli insegnamenti dell’accademia neoclassica con i nuovi ideali dell’espressività romantica e della verità naturalistica. Morì improvvisamente, sembra, per emorragia cerebrale; una morte simbolica, si direbbe, quasi che il corpo non abbia retto allo sforzo assurdo di conciliare l’inconciliabile. Nel 1857 Celentano ritorna a Roma per continuare il Cellini iniziato l’anno precedente e non ancora concluso poiché il pittore, nell’esecuzione di un quadro impiegava un’enorme quantità di tempo per accertare la realtà storica della scena da rappresentare per rintracciare tutti gli elementi che ne permettessero un’esattissima ricostruzione, e soffermarsi a leggere la descrizione dei caratteri che pensa di attribuire ai personaggi. Nella preparazione del quadro, infatti, Celentano non si preoccupa ancora della fedele rappresentazione dei costumi e dei luoghi, ma soprattutto dell’azione, del contrasto dinamico delle masse e dei singoli atteggiamenti, e butta giù linee spezzate e divergenti, imposta la composizione a grandi zone d’ombra e di luce. Il Celentano usava fare innumerevoli bozze e disegni preparatori per i suoi quadri, a penna e a matita. Quelli più colorati divennero invece veri e propri bozzetti (la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ne possiede una raccolta di settecentocinquanta, donati dalla famiglia nel 1892). Il nostro bozzetto Il sacco di Roma (tra l’altro mai portato a compimento), che Celentano esegue su consiglio dell’architetto napoletano ma risiedente a Roma, Antonio Cipolla, si riallaccia a due disegni preparatori oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (Cit. M. Biancale, Celentano, tav. XXVIII) ed è ancora spoglio di quel dettaglio dell’apparato teatrale di cui il Celentano credeva poi indispensabile rivestire il quadro finito ma di cui già se ne possono cogliere gli indirizzi, ancorché il carattere proprio di “appunto” richieda una larghezza di pennellata, rapidità di visione d’insieme e sommarietà di segno. Caratteristiche che però ci permettono di gustare le qualità dell’artista: la sua prontezza di mano, la capacità di cogliere un gesto, di fermare un atteggiamento, l’abilità nel giovarsi del gioco dei contrasti della luce e dell’ombra per creare il movimento di un’azione.
    Stima minima €2000
    Stima massima €4000
  • Gaeta Enrico(Castellamare di Stabia 1840 - 1887)
    Al lavatoio
    olio su tela, cm 52x39
    firmato in basso a sinistra: E. Gaeta

    Provenienza: eredi dell'artista ; coll. privata,Napoli

    Esposizioni: Napoli,Associazione “Circolo ArtisticoPolitecnico”, 03 - 14 Maggio 2014 Bibliografia:E. Campana, Un pittore dell'Ottocento, in "Emporium" , vol. LXXX, n° 475,Istituto Italiano di arti grafiche, Bergamo, luglio 1934, XII, p. 54; Enrico Gaeta a cura di Rosario Caputo , Ed. Vincent Napoli 2014, tav 6,pag. 25


    La comprensione dell’arte di Enrico Gaeta non può che partire dal suo paese d’origine, Castellammare di Stabia,
    poiché accadde probabilmente che proprio per la visione di quei meravigliosi paesaggi l’artista si prefisse fin da piccolo
    l’obiettivo di dedicarsi con tutto se stesso alla pittura; egli si trasferì pertanto a Napoli nel 1857 per iscriversi al Real
    Istituto di Belle Arti, dove seguì gli insegnamenti di Mancinelli e Smargiassi per dedicarsi alla pittura di paesaggio.
    La poetica di Gaeta fu sempre all’insegna della scrupolosa trasposizione di quanto gli si presentasse davanti agli occhi,
    in contrapposizione alle tendenze più accademiche del tempo. Se si vuole rintracciare in lui un qualche cambiamento bisogna rivolgersi magari al modo in cui riportò via via sulla tela gli spettacoli della natura che l’incantavano, prima
    seguendo lo stile di Giacinto Gigante (che del nostro fu maestro e amico), poi orientandosi invece verso i dittami di Domenico Morelli, ponendo cioè maggior attenzione al perfetto equilibrio tra disegno e colore nella composizione dei
    dipinti. Dalla seconda metà del 1860 Gaeta trovò poi un nuovo mentore nella persona di Marco De Gregorio, entrando dunque dapprima nel circolo degli scolari di Resina per poi avvicinarsi ai modi dei primi macchiaioli toscani.
    Gaeta fu socio della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli dal 1868, avendo già preso parte agli eventi espositivi da questa organizzati fin dal 1864, e continuò a partecipare annualmente alle mostre locali fino alla fine dei suoi giorni.
    Intensa fu inoltre la sua attività nelle esposizioni nazionali, tra le quali l’artista riscosse grande successo a Torino nel 1884 e tre anni dopo a Venezia.
    Quella di Venezia fu l’ultima rassegna cui Gaeta prese parte: da poco tornato in terra natia egli fu assalito da due uomini per motivi d’onore (un tradimento presunto ma mai verificatosi effettivamente) e morì per le gravi ferite riportate. La produzione relativamente esigua dell’artista dunque si ritrova oggi principalmente nelle collezioni pubbliche e private dell’Italia meridionale, ma è certa anche una sua parziale circolazione nei mercati stranieri: opere di Gaeta apparvero del resto quand’egli era ancora in vita alle celebri Esposizioni Universali di Parigi nel 1867 e nel 1878 e di Vienna nel 1873, confermando la fama dell’autore anche sulla scena artistica internazionale.
    Proprio negli anni ’70 sorse a Stabia l’educandato di Villa Starace, e Gaeta vi dedicò più opere: non più tuttavia esclusivamente esterni, paesaggi, poiché ormai l’artista aveva cominciato anche a penetrare negli edifici, ad esplorarli,
    a ritrarli nei loro mattoni screpolati, gli stessi mattoni che compongono la stretta architettura riportata nell’opera proposta, e anzi essi qui si offrono nel punto di fuga centrale, aperto ed illuminato dal sole, ad accogliere quei muschi di
    cui i molti toni di verde costituirono sempre una cifra caratteristica del Gaeta, declinati secondo molteplici possibilità al variare della luce naturale. La natura delle cose viene rispettosamente restituita, senza alcun tentativo di sovrapporsi ad
    essa, pure nella giovane lavandaia, intenta nel proprio lavoro, che anima il dipinto non dissimilmente da altre opere del Gaeta, quali Lavandaia in cortile e Palazzo dello Stallone: non è presente cioè alcun cenno patetico o compassionevole, se non magari quella vaga dolcezza che traspare nell’intera produzione dell’autore e che fu sempre propria del suo animo sensibile.
    Stima minima €7000
    Stima massima €13000
  • Palizzi Francesco Paolo (Vasto, CH 1825 - Napoli 1871)
    Natura morta
    olio su tela, cm 106,5x60,5
    firmato in basso a sinistra: Franz Paul Palizzi

    Provenienza: coll. privata, Parigi; coll. privata, Napoli


    Penultimo delle “nove muse” (noto soprannome con cui era definito insieme ai suoi fratelli, tutti più o meno versati nella arti) di Casa Palizzi, Francesco Paolo giunse a Napoli dalla nativa Vasto nel 1845 per iscriversi al Real Istituto di Belle Arti; qui fu dapprima allievo di Camillo Guerra con l’intenzione di diventare pittore di scene storiche,
    venendo dunque avviato dal proprio mentore a quel convenzionalismo accademico tipico dell’epoca, poi decise di seguire invece gli insegnamenti di Gennaro Guglielmi (artista in cui confluivano tanto la tradizione locale che le nuove spinte naturalistiche) orientandosi verso la natura morta. Sulla scia di questo nuovo interesse Francesco Paolo studiò attentamente i grandi maestri della pittura napoletana di genere del Seicento, come Recco e Ruoppolo, ma fu attirato soprattutto dalle composizioni più semplici, ridotte a pochi elementi, di un Luca Forte o del settecentesco Giacomo
    Nani, entrambi artisti memori della più ortodossa tradizione caravaggesca all’insegna del luminismo.
    Negli anni di formazione fu innegabile (come ovvia) tuttavia anche l’influenza dei più affermati fratelli maggiori di Francesco Paolo: Filippo prima, quindi (e soprattutto) Nicola, il quale trasmise al nostro quella pittura materica e corposa, a larghe pennellate strutturanti, che fu alla base dell’ormai riconosciuta (grazie specialmente agli studi di
    Michele Biancale e Raffaello Causa) innovazione che Francesco Paolo seppe apportare al genere tradizionale della natura morta; non mancò infine l’esempio di Giuseppe Palizzi, raggiunto a Parigi dal fratello minore nel 1857.
    L’immersione nel clima della Ville Lumière non poteva lasciare indenne la pittura di Francesco Paolo: la pennellata si fece più rapida, il greve chiaroscuro andò illuminandosi, i colori divennero più vivi e brillanti; questa trasformazione
    fu con ogni probabilità causata dallo studio delle opere del celebre Chardin nonché dal contatto col giovane Manet, il quale pure in quel periodo andava recuperando la tradizione della natura morta francese: dobbiamo immaginare per
    lo meno una visita all’importante mostra tenuta dal pittore francese presso la galleria Martinet nel 1865, se nelle opere del giovane Palizzi ora presso il Banco di Napoli o la stessa Accademia di Belle Arti si ritrova una resa sintetica del tutto simile a quella di Manet (nello sviluppo poi di temi tipici dell’artista francese, come quelli delle ostriche e delle peonie) o addirittura vere e proprie citazioni, come il virtuosistico coltello in bilico sul margine del tavolo a definire prospetticamente lo spazio della rappresentazione.
    Se il soggiorno parigino fu costellato da molteplici partecipazioni ai Salon locali, fino a culminare nella presenza all’Esposizione Universale del 1867, Francesco Paolo non dimenticò mai di inviare i suoi lavori alle Mostre della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, di cui era socio fin dalla fondazione nel 1862. Nella città partenopea l’artista tornò poi effettivamente e definitivamente dopo alcune peripezie nel 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana; a Napoli s’ammalò e morì prematuramente solo un anno dopo.
    Avendo riportato nella sua città d’adozione solo poche opere (in gran parte donate nel 1898 da Filippo Palizzi all’Accademia locale) prima dell’improvvisa ed inaspettata dipartita, molta della produzione di Francesco Paolo è perduta tra i salotti dei collezionisti francesi o comunque internazionali. Proprio per questo la tela proposta risulta tanto più preziosa, in quanto costituisce un insperato ed importante recupero di un autore asceso (secondo il parere ormai unanime degli studiosi, come detto) all’Olimpo degli innovatori napoletani dell’Ottocento. Ancora più, quest’opera può
    considerarsi a ragione una summa di più temi cari all’autore e riscontrabili perciò nei suoi quadri ora musealizzati: c’è la bella pentola di rame col crostaceo vermiglio, un’accoppiata quasi senza pari nella produzione dell’artista, ripresa solamente dal Paiuolo con gamberi, molto simile (la tela, creduta perduta, è stata identificata solo di recente in una
    collezione privata); c’è la cacciagione, visibile più volte nella collezione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli ma qui declinata secondo la scelta inedita di due fagiani al posto delle più tradizionali pernici ed anatre, e ci sono infine i
    funghi (pure all’Accademia) con il coltello, quel succitato accento caratteristico di Palizzi ma ereditato dalla più grande pittura francese coeva.
    Stima minima €4500
    Stima massima €8500
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933) Bimbi nel bosco
    olio su tela rip. su tela, cm 55x72
    firmato in basso a sinistra: Alceste Campriani

    Provenienza: Coll. privata, Napoli


    L’ esperienza artistica di Campriani ebbe inizio nel 1862, anno del suo arrivo a Napoli dopo l’esilio della sua famiglia dalla papalina Umbria a causa degli ideali libertari del padre. Nel già garibaldino capoluogo partenopeo il giovane
    Alceste, tendenzialmente non meno ribelle del suo genitore, si rivelò inadatto agli studi intellettuali tradizionali e fu perciò iscritto all’Istituto di Belle Arti, dove ebbe per compagni personaggi di spicco quali Gemito, D’Orsi, Mancini,
    De Nittis.
    Studente poco incline all’accademismo imperante dell’epoca, Campriani mostrò ben presto simpatie per il naturalismo palizziano, avvicinandosi all’allora nascente gruppo di Resina ma non legandovisi ufficialmente (sebbene un’opera quale
    Capodimonte del 1865 mostrasse inequivocabilmente già la sua propensione ad una rappresentazione luministica dello spazio), non prima almeno del termine degli studi ufficiali conseguito nel 1869 (e dopo anche un soggiorno fiorentino in cui l’artista entrò in contatto con i macchiaioli ed in particolare con Signorini).
    Non è proprio chiaro il motivo per il quale Campriani pare avesse deciso poco dopo il suo diploma di abbandonare la pittura per dedicarsi al commercio, tuttavia è certo che allora si rivelò fondamentale il sodalizio con De Nittis, il quale
    tornando a Napoli da uno dei suoi soggiorni parigini rimase tanto impressionato dai risultati raggiunti all’amico che lo convinse a seguirlo nella Ville Lumière per presentarlo al celebre mercante d’arte Goupil. L’incontro fu davvero felice, se
    il noto negoziante richiese l’esclusiva di tutti i lavori dell’artista per ben quattordici anni. Mentre però è nota ed evidente l’influenza del raffinato ed elegante ambiente cittadino sulla produzione di De Nittis, Campriani rimase sempre fedele a
    se stesso e a quel paesaggismo bucolico che si era impresso nella sua sensibilità artistica sin dai primi tentativi pittorici, esaltato dalle teorie degli scolari porticesi. Tale anzi fu la nostalgia della sua terra e di quelle vedute che frequenti furono i viaggi in Italia, fino ad un ritorno definitivo a seguito della cessione del contratto con Goupil nel 1884. Rimaneva il grande successo internazionale ottenuto dall’artista, i cui quadri erano in bella mostra tanto nelle esposizioni di tutta Europa che nei salotti dei più nobili estimatori d’arte dell’epoca.
    Agli ultimi anni parigini o a quelli subito successivi in Italia (quest’ultimi costellati di partecipazioni alle più importanti
    esposizioni nazionali) deve forse risalire la tela proposta, raffigurante con ogni probabilità una veduta campestre diCapri (le cui marine si ripresentano spesso nella produzione di Campriani dell’epoca), con i caratteristici mandorli in
    fiore pure protagonisti di altre opere dell’artista e con la coppia di popolani intenti nel tradizionale intonare musica pastorale suonando due siringhe; soggetto quasi identico (ma assai semplificato) poteva osservarsi in una Pastorella che suona la siringa, documentata fotograficamente ma ormai di ignota ubicazione. La semplicità formale caratteristica dell’autore si combina (come in quasi tutta la sua produzione) con la costante attenzione che egli sempre volse alla luce ed i suoi effetti, non esente qui, nell’illuminazione frontale del pieno mezzogiorno che quasi cancella le zone d’ombra, dalle influenze del Fortuny, che affascinò evidentemente Campriani (come del resto l’intero gruppo di Resina) durante il soggiorno a Portici negli anni Settanta del secolo; lo spettro cromatico è particolarmente ricco, forse più di molte
    altre tele dell’autore e certamente al livello dei suoi capolavori, con l’ampia gamma dei verdi interrotta dalle molteplici variazioni di tono dell’azzurro, del marrone, del rosa che in particolare screzia meravigliosamente il bianco dei fiori di mandorlo. Si può dunque dire in definitiva che, se c’è tutta una produzione (quella più giovanile) di Campriani dedicata all’avida analisi della realtà ed alla sua resa oggettiva nell’opera d’arte, qui la lezione palizziana è andata
    smorzandosi e raffinandosi, nell’intento di comprendere più poeticamente il paesaggio e di rappresentarne anche il sentimento, l’invisibile, poiché esso, adoperando una felice espressione del critico del tempo Vittorio Pica, «non deve
    parlare soltanto agli occhi, ma anche all’anima di chi lo guarda».
    Stima minima €9000
    Stima massima €14000
  • Mancini Antonio (Roma 1852 - 1930 )
    Il ritratto della Sig. Ines Pesaro
    olio su tela, cm 99x73,5
    firmato, iscritto e datato in basso a sinistra: Alla Sig. Ines Pesaro A. Mancini Roma luglio 1921

    Provenienza: Coll Pesaro, Mailno; coll. privata, Napoli

    Esposizioni: Arte Italiana Contemporanea, Milano, Galleria Pesaro, Ottobre – Novembre 1921; Mostra delle opere di Antonio Mancini. Onoranze Nazionali sotto l’Alto Patronato di S.M. il Re ela Presidenza di S.E. Mussolini, Roma, Palazzo dell’Augusteo, 1927

    Bibliografia: Arte Italiana Contemporanea (Milano, Galleria Pesaro, esposizione Ottobre-Novembre 1921), catalogo con prefazione di U. Ojetti e notebiografiche di V. Bucci, Alfieri & Lacroix, Milano, 1921, p. 106; Mostra delle opere di Antonio Mancini (Roma, Palazzo dell’Augusteo, 1927), catalogo, Arti Grafiche F.lli Palombi, Roma, 1927, p. 15; OTTOCENTO Catalogo dell'arteItaliana dell'Ottocento , Ed. Metamorfosi Milano2010, pag. 348; D. Di Giacomo, Antonio Mancini: la luce e il colore, Ianieri Editore, Pescara, 2015, tav. XCIV, p. 140
    Stima minima €18000
    Stima massima €25000
  • Toma Gioacchino (Galatina, LE 1836 - Napoli 1891) Gentildonna in salotto
    olio su tela, cm 30x18,5
    firmato e datato in basso a sinistra: G. Toma 1862

    Provenienza: Coll. privata, Napoli


    Gioacchino Toma, rimasto prestissimo orfano di padre e di madre, trascurato e vessato dai parenti, crebbe solo, selvatico, senza maestri, senza amore, maturando nell’anima un’ideale tenerezza. Raccolto nell’Ospizio dei poveri di Giovinazzo,
    ne fuggì dopo avere percosso un compagno che l’offendeva. Riparando presso i parenti a Galatina, lo attendevano delusioni più tristi. Fuggito anche di lì, fece il servo a Napoli presso un vecchio pittore, patì i soprusi d’un imbrattatele
    che intendeva sfruttarlo, e si trovò nuovamente in strada. Arrestato nel 1857 con la falsa accusa di cospirazione, la prigione lo inasprì contro gli oppressori e gli fece sentire più forte l’amore per la libertà. In seguito Gioacchino Toma fu inviato al domicilio coatto a Piedimonte d’Alife, in provincia di Caserta. In quel luogo, grazie anche alle numerose richieste, dipinse una serie di ritratti della società alifana, benvoluto sia dalle famiglie Caso e Dal Giudice, avversi ai Borbone, che dai Gaetani di Laurenzana, vicini ai regnanti. Grazie proprio all’aiuto del duca di Laurenzana, Toma
    riuscì a tornare a Napoli nel 1859 e qui, iscrittosi al Real Istituto di Belle Arti sotto Giuseppe Mancinelli, esordirà alla Mostra borbonica di quell’anno presentando Erminia che scrive il nome di Tancredi sull’albero. La sua attività
    di ritrattista, seppur non considerevole, non si limitò al periodo alifano, quando si dedicò principalmente a ritrarre personalità del luogo in modo austero e raffinato, ma continuò verso la fine della carriera quando, forse spinto da
    sentimenti personali, raffigurò i familiari più stretti. Il quadro Gentildonna in salotto è datato 1862 ed è di pochi anni successivo al quadro di Domenico Morelli La barca della vita eseguito nel 1859 e verso il quale, il Toma rende un doveroso omaggio replicandolo sulle pareti alle spalle della gentildonna.
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Postiglione Luca (Napoli 1876 - 1936)
    Popolana
    olio su tela, cm 104x64
    firmato in basso a destra: L. Postiglione Provenienza: Coll. privata, Roma
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Pratella Attilio (Lugo di Romagna, RA 1856 - Napoli 1949)
    Barche nel porto di Napoli
    olio su tavola, cm 35x23
    firmato in basso a destra: A. Pratella
    Provenienza: Coll. privata, Napoli
    Stima minima €4000
    Stima massima €7000
  • Balestrieri Lionello (Cetona SI, 1872 - 1958) Beethoven
    olio su tela, cm 87x187
    firmato, datato e iscritto in basso a destra: L. Balestrieri Paris 1900

    Provenienza: Coll. privata,Milano; Coll. privata, Roma



    Nato da un’umile coppia senese, Lionello Balestrieri fu costretto assai presto a lavorare come decoratore per potersi permettere gli studi di Belle Arti, prima a Roma poi a Napoli; qui fu dapprima seguito da Gioacchino Toma, poi in un secondo momento seguì con grande entusiasmo le novità introdotte nel Real Istituto sotto la direzione di Filippo
    Palizzi e Domenico Morelli, quest’ultimo poi maestro venerato dal Balestrieri per l’intera sua vita.
    Appena ventenne Lionello si trasferì a Parigi, attirato dal fascino e dalla fama della Ville Lumière come tanti altri suoi contemporanei. La vita nella soffitta di un palazzo popolare di Montmartre fu certamente dura e difficile, seppure
    allietata dalla presenza dell’amico Giuseppe Vannicola, poeta e violinista romano col quale il pittore divideva l’alloggio:fu costui il tipico bohémien, dedito ad una vita “maledetta” all’insegna degli eccessi e destinata ad una tragica e precoce
    fine circa venti anni dopo; il suo evidente carisma influenzò tuttavia fortemente il Balestrieri, che negli anni parigini produsse una folta serie di opere accomunate dal tema musicale, come La morte di Mimì, Chopin, Notturno, Manon;
    su tutte queste, tuttavia, si impose il Beethoven realizzato dopo molti ripensamenti nel 1899 ed esposto per la prima volta all’Universale di Parigi del 1900: premiato con la medaglia d’oro, fu nuovamente in mostra alla Biennale veneziana
    del 1901 e là acquistato dal Museo Revoltella di Trieste, ove tuttora si trova.
    In vero l’inatteso successo della grossa tela fu tale che si moltiplicarono rapidamente le richieste e le conseguenti realizzazioni di copie, tanto che lo stesso Lionello, versato come in pittura anche nella grafica, preferì dedicarsi ben presto ad incisioni, acqueforti ed acquetinte per velocizzare i processi di produzione ed aumentare i guadagni.
    Forse sarebbe preferibile addirittura ammettere che in definitiva la fama dell’opera fu anche troppa, e finì per oscurare quella del suo stesso autore, se questi poi, nonostante le successive produzioni impressionista (Lavandaie sulla Senna) e
    macchiaiola (Signora che ricama in giardino), verista (Mademoiselle Chiffon) e finanche futurista (Sensazioni musicali, Penetrazione, Materia e spirito), finì per essere ricordato solo e soltanto per il suo giovanile Beethoven. L’ opera proposta dunque è innanzitutto una versione successiva al celebratissimo originale, chiaramente; tuttavia il
    supporto in tela la retrodata rispetto ai numerosi multipli di minor valore, inoltre essa reca la firma di Balestrieri che è assente nella maggior parte delle copie (quelle apparse sul mercato, almeno) ed è di tutte queste più grande. Il soggetto
    è vagamente autobiografico, presentando in primo piano sulla sinistra lo stesso Balestrieri (il quale realizzò in vita numerosi autoritratti) intento ad ascoltare l’amico Vannicola che suona con l’accompagnamento d’un pianoforte la
    celebre Sonata Op. 47 “a Kreutzer” di Beethoven (il musicista tedesco è in realtà presente nell’opera come inquietante presenza fantasmatica mediante una riproduzione della sua maschera funeraria, appesa non a caso in alto e quasi al centro della composizione); gli altri personaggi, una somma di solitudini più che una vera compagnia, pure sembrano
    ascoltare la virtuosa esecuzione musicale, oppure soffrono l’alienazione causata dagli alcolici e dal consumo d’assenzio (particolarmente suggestiva è la figura femminile dallo sguardo perso nel vuoto che s’accompagna all’artista). Gli stessi
    vividi colori della tavolozza si fanno acidi (più qui che nell’originale, dove si preferirono evidentemente toni cupi che meglio rispecchiassero la fredda miseria della vita bohémienne), come filtrati dai fumi delle droghe, e danno all’interno
    l’aspetto di quei café parigini tanto cari a Toulouse Lautrec, oppure avvicinano l’opera ai celebri “bevitori d’assenzio” di Degas e Picasso.
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Rossano Federico (Napoli 1835 - 1912)
    Campagna francese
    olio su tela, cm 30,5x44,5
    firmato in basso a sinistra: Rossano

    Provenienza: Coll. privata, Bologna; Coll. privata, Napoli


    Iscritto inizialmente alla Scuola di architettura del Real Istituto di Belle Arti napoletano dal padre, rigido militare a riposo, Federico Rossano prese presto la decisione di frequentare piuttosto i corsi di pittura, suscitando l’indignazione
    familiare che, come era tipico tra i borghesi (allora come oggi), teneva in scarsa considerazione chiunque si dedicasse a mestieri che non garantissero una certa e rapida remunerazione. La delicata e difficile condizione tra le mura
    domestiche non poté non influire ovviamente anche sulla produzione artistica del giovane autore, che preferì per una prima fase (dalle forti sfumature poetiche) ritrarre paesaggi malinconici, boschi isolati, paludi, rovine, prediligendo i Campi Flegrei.
    Nel 1858 Rossano abbandonò gli studi accademici per trasferirsi a Portici dall’amico Marco de Gregorio: fu la svolta che diede i natali alla celeberrima Scuola di Resina, di cui il nostro fu tra i principali rappresentanti. Le numerose opere
    realizzate in circa un ventennio circolarono tra svariate esposizioni italiane (comparendo più spesso ovviamente agli eventi organizzati dalla neonata Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, di cui Rossano fu socio quasi da subito), conquistando lodi di artisti affermati quali il Gigante e Michele Tedesco, nonché finendo spesso nelle collezioni reali.
    Il passo verso il successo internazionale fu breve: all’Universale di Vienna del 1873 fu assegnata una medaglia a Fiera dei buoi a Capodichino, e lo stesso soggetto esposto al Salon parigino del 1876 aprì a Rossano le porte del raffinato ambiente culturale ed artistico della Ville lumiére. L’artista decise infatti di raggiungere l’anno successivo Giuseppe
    De Nittis nella capitale francese, entrando così in contatto con intellettuali e pittori quali Boldini e Dégas; ancora più importante fu però la conoscenza del primo Impressionismo, col quale Rossano scoprì d’avere di fatto condiviso i principi tecnici ed estetici praticamente da sempre: era tipico di lui infatti fissare i motivi dei suoi dipinti con grande
    immediatezza, per poi concluderli rapidamente e senza sottoporli a successivi ritocchi.
    Come per tanti altri artisti coevi trasferitisi all’estero il ricordo della terra natia rimase tuttavia sempre forte, e Rossano inviò spesso proprie opere alle esposizioni italiane, fino a tornare definitivamente in patria nel 1892, calorosamente accolto dai vecchi amici di gioventù. In un mercato locale profondamente cambiato il nostro decise però di non tentare un vero e proprio rientro (comunque mai abbandonando del tutto l’attività pittorica), dedicandosi piuttosto
    all’insegnamento di quanto appreso nel corso della sua florida carriera agli allievi delle Belle Arti e della scuola Suor Orsola Benincasa.
    Nel soggiorno francese comunque la pittura di Rossano s’era fatta più piacevole (in nome della maggiore serenità, specialmente economica, conquistata dall’autore, allora esposto con costanza nelle vetrine del celebre mercante Goupil),
    come subito dimostra del resto l’opera proposta. A Parigi l’artista aggiornò di fatto ai gusti estetici del momento quello spirito che aveva animato (e ancora animava) gli scolari di Barbizon, rifugiatisi nei semplici panorami agresti e silvani per evitare le classicistiche composizioni storiche e la tragicità dei romantici,traendo poi dalla tradizione olandesei tipici contrasti tra i toni scuri delle forme in primo piano e la vibrante luminosità dei cieli azzurri; similmente ai Fiamminghi del passato Rossano del resto già caratterizzava le sue opere fin dagli esordi con lo sviluppo di piani
    degradanti all’orizzonte, qui ridotti ad uno solo per far posto alle più numerose ed ampie nuvole perlacee. Anche la figura umana, a lungo semplice variatio tonale nella prima produzione dell’artista, divenne allora parte integrante del paesaggio: si trattò sempre di umili lavoratori, spesso (come in questo caso) contadini, di quelli che piacevano a
    Jean-Francois Millet, intenti nei propri compiti quotidiani, tema questo che alla fine accomunava Rossano anche al più cosmopolita amico De Nittis. Mai condividendo di questi la mondanità, tuttavia, i soggetti ritratti nelle vedute di Rossano erano sempre osservati in lontananza, dal margine, come se l’artista ancora percepisse in qualche modo la
    sua esclusione dalla comune vita sociale, ed in questo non può non rintracciarsi ancora quella vena malinconica chesempre lo perseguitò fin dalla sua prima gioventù.
    Stima minima €16000
    Stima massima €25000
  • La Volpe Alessandro (Lucera, FG 1820 - Roma 1887) Panorama di Napoli con pescatori
    olio su tela, cm 74,5x106
    firmato in basso a sinistra: A. La Volpe
    Provenienza: Coll. privata, Napoli
    Stima minima €8000
    Stima massima €12000
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888)
    Al pascolo
    olio su tela, cm 60x53
    firmato in basso a destra: Palizzi
    Provenienza: Coll privata, Roma
    Stima minima €4500
    Stima massima €7500
  • Volpe Vincenzo (Grottaminarda,AV 1855 - Napoli 1929)
    Ritratto di fanciulla
    olio su tela, cm 62,7x41,7
    firmato in basso a sinistra: V. Volpe

    Provenienza: Coll. privata, Palermo; Coll.privata, Napoli



    Si riconosce in questo Ritratto di fanciulla un magistero che oltrepassa i limiti accademici per librarsi nell’arte della scuola napoletana che, nella seconda metà dell’Ottocento, procedette sull’esempio e insegnamento di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi maestro, il primo nel campo del disegno, della figura e della composizione cromatica, mentre il secondo inarrivabile artista dell’osservazione naturalistica e della concretezza pittorica. Volpe, ligio per sua natura agli insegnamenti di Morelli, di cui fu l’allievo e successore esemplare e, contemporaneamente, attento anche alle diverse elaborazioni realistiche della pittura napoletana, vi adattò volentieri il suo concetto dell’arte e si applicò a svolgerlo nella direzione voluta dal suo temperamento. A tal proposito Enrico Somaré, in occasione di una mostra
    di Volpe alla Galleria dell’Esame a Milano, sottolineò che: uno spirito di osservazione più assidua, meno distratta, un sentimento più calmo, una maniera più modesta, dovevano eliminare dalle sue migliori esecuzioni l’enfasi che dilatò
    talvolta la maniera morelliana, l’eccesso che accompagnò sovente l’espressione manciniana, per citare due esempi. L’arte di Vincenzo Volpe ebbe per suo metro la misura, per suo criterio l’ordine, per suo strumento il mestiere e lo studio. Di rado espansivo, quasi sempre contenuto e riservato, non amava le grassezze dei tubetti spremuti sulla tela, e cercava di ottenere i risultati più densi con pochissimo colore. Si ricollegava in ciò al suo grande maestro Morelli, che sapeva riuscire intenso con il minimo dei mezzi, e si ricollegava ancora a Toma, del quale amava le atmosfere grigie e la
    squisitezza dei rapporti tonali. Di entrambi, Vincenzo Volpe comprese il profondo sentimento, a entrambi si accostò, per spontaneo bisogno dello spirito. Educato all’arte nel clima napoletano ed essendo giunto, per trasporto sincero, alla comprensione sottile del linguaggio pittorico, rifuggì i contrasti chiassosi, i colori troppo vistosi. L’accordo umile e gentile dei mezzi toni lo affascinò sempre, perché essi rendevano meglio il sentimento delle persone e delle cose attraverso la sua pittura.
    Stima minima €7000
    Stima massima €13000
  • Morelli Domenico (Napoli 1823 - 1901)
    I profughi di Aquileia
    olio su tela, cm 45x118
    firmato in basso al centro: Morelli

    Provenienza: Coll. privata, Napoli


    L’aver conseguito un primo premio di pittura nemmeno ventenne (grazie all’opera Virgilio comanda a Dante di inginocchiarsi appena che conobbe l’angelo che guidava la navicella colle anime del Purgatorio), dopo un’iscrizione assai precoce al Real Istituto di Belle Arti, è già un esempio (uno fra tanti) sufficientemente esplicativo della vita geniale
    ch’ebbe Domenico Morelli, un nome ormai tanto affermato da risuonare ben oltre i salotti degli appassionati d’Arte.
    Il conseguente primo, breve pensionato romano permise com’era di consueto al giovane artista di copiare dal vero le molte antichità dell’Urbe, ma probabilmente ancora più importante fu per il Morelli la visione del ciclo pittorico del
    casino Massimo, realizzato com’è noto dal gruppo dei Nazareni, i quali divennero inconsapevolmente un insostituibile legame tra il pittore napoletano e l’arte tedesca che più volte l’avrebbe influenzato nel corso della sua carriera.
    Un secondo pensionato a Roma (dopo un concorso sul tema Goffredo e l’Angelo) fu invece impedito dall’atmosfera soffocante di censura imposta dal regime borbonico all’indomani degli eventi del 1848, e fu questa alla fine un coincidenza probabilmente felice, in quanto il Morelli si risolse allora di raggiungere segretamente Firenze, dove trovò
    Saverio Altamura e Pasquale Villari: fu quest’ultimo, allievo del letterato De Sanctis, il principale ispiratore di tutta la prima produzione artistica morelliana (ascrivibile agli anni di formazione tra 1845 e 1855) nonché consigliere di quella subito seguente che prese poi il nome di verismo storico, all’insegna cioè della obiettiva restituzione della verità dei fatti rappresentati (secondo il celeberrimo motto «rappresentar figure e cose, non viste, ma vere»): primo esempio di questa
    nuova poetica fu l’acclamatissima opera Gli iconoclasti.
    Un secondo punto di riferimento per l’attività del Morelli fu senza dubbio il grande Giuseppe Verdi, conosciuto a Napoli già nel 1845: da quest’amicizia nacque non solo una fitta corrispondenza ma anche una serie di dipinti legati al mondo del teatro, come I Vespri siciliani, nonché un faticoso Ritratto del compositore (alla cui elaborazione partecipò anche Filippo Palizzi) completato solo negli anni Settanta. In quello stesso decennio prese avvio del resto la fase orientalista della produzione morelliana, pesantemente filtrata dall’influenza dell’arte di Mariano Fortuny, durante la quale furono partoriti veri e propri capolavori quali il Bagno turco e Le tentazioni di S. Antonio, pervasi dalla raffinata sensualità tipica del pittore spagnolo e pertanto allora oggetti di aspre critiche, in quanto accostati all’arte “di moda”.
    Da sempre convinto avversario di un certo vetusto accademismo, soprattutto tra le mura delle scuole d’arte, Morelli s’impegnò fin dal 1868 (anno della nomina a titolare della cattedra di pittura) nella riforma del Real Istituto di Napoli in collaborazione con Filippo Palizzi, e sempre con quest’ultimo fu costretto poco più di dieci anni dopo a rassegnare le dimissioni per contrasti interni al collegio accademico (vi tornò comunque tempo dopo su richiesta del citato Villari,
    ministro della Pubblica Istruzione nel biennio 1891-1892); nel 1882 dunque il Morelli passò alla direzione del neonato Museo artistico industriale.
    Nonostante i numerosi e prestigiosi incarichi il nostro non si sottrasse mai all’attività pittorica, che anzi divenne allora una rilassante fuga dagli obblighi giornalieri. Gli ultimi decenni del Morelli furono dedicati quasi per intero allo sviluppo di tematiche religiose, soprattutto la vita di Cristo e la raffigurazione della Vergine, quest’ultima declinata secondo un’intonazione molto intimistica e familiare: ne è un esempio la Madonna della Scala d’oro dipinta per le nozze del Villari; un’ulteriore ispirazione venne poi dall’opera che già affascinava numerosi artisti coevi, Gli amori degli angeli di Thomas Moore: in vero la rappresentazione di soggetti angelici portò come conseguenza una trasformazione anche nello stile pittorico dell’artista, che attraverso l’uso dell’acquerello si fece sempre più evanescente e rarefatto.
    L’ultima grande opera di Morelli fu la partecipazione alle illustrazioni per la Bibbia di Amsterdam, compito cui fu chiamato insieme ad artisti del calibro di Michetti e Segantini (i tre avevano ottenuto i premi più importanti alla prima
    Internazionale di Venezia del 1895); la prima edizione della mastodontica opera fu pubblicata nel 1901, ma il nostro non fu in grado di riceverne una copia, spegnendosi prima per crepacuore.
    Con la scomparsa di Morelli terminò anche la curatela dell’importante collezione di Giovanni Vonwiller (suo antico amico e mecenate che aveva anche ricoperto un importante ruolo nella fondazione e nel sostentamento della Società
    Promotrice di Belle Arti) di cui l’artista guidò fin dall’inizio la costituzione, così che ne andarono in asta a Parigi tutte le opere, compresi capolavori morelliani unanimemente celebrati quali La barca della vita (Allegoria della vita umana, in collezione privata) e I profughi di Aquileia (ora alle Gallerie dell’Accademia di Napoli).
    Fu solo un caso dunque se in un museo finì l’opera acquistata da Vonwiller e non questa proposta, di fatto gemella della prima in ogni aspetto. Il soggetto fu descritto dallo stesso autore in una lettera indirizzata al Villari nel 1860, anno
    che si pone dunque come termine ante quem dell’esecuzione (almeno di quella originale, di fatto non distinguibile con certezza): gli abitanti di Aquileia, fuggiti dalla città ormai sotto il controllo di Attila, navigano su imbarcazioni
    di fortuna verso nuovi lidi (e difatti sono tutti protesi a cercar terra con lo sguardo), e presto attraccheranno sulle isole inabitate della laguna veneta; l’intento simbolico (ripreso del resto da un’opera dell’amico Giuseppe Verdi, l’Attila
    appunto) fu dunque quello di celebrare patriotticamente la fondazione della città di Venezia in opposizione al tiranno straniero, che facilmente poteva identificarsi negli anni di Morelli con l’Impero asburgico. La composizione riprendeva quella della già citata e coeva Allegoria della vita umana, nonché modelli stranieri tra cui subito viene alla mente La Zattera della Medusa di Géricault, certamente vista dall’autore in uno dei suoi viaggi per l’Europa. Adoperando una tavolozza povera di colori, per lo più grigi, tanto che cielo e mare sembrano farsi una cosa sola pervadendo l’atmosfera di una notazione fortemente malinconia (coerentemente al tema trattato), Morelli sostituisce al dipinto rifinito in ogni sua parte l’abbozzo, «estrinsecazione immediata della visione spirituale fissata con i mezzi più brevi nella materia durevole» (parole di Edoardo Dalbono), aprendo le porte ad un’arte nuova e moderna fino ad allora senza precedenti in Italia.
    Stima minima €6000
    Stima massima €13000
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