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  • Pratella Attilio (Lugo di Romagna, RA 1856 - Napoli 1949)
    Marina di Napoli
    olio su tavola, cm 19x31,5
    firmato in basso a destra: A. Pratella
    a tergo biglietto di Attilio Pratella
    Stima minima €1300
    Stima massima €1800
  • Santoro Rubens (Mongrassano, CS 1859 - Napoli 1942)
    Sul fiume
    olio su tela, cm 28x19,5
    firmato in basso a destra: Rubens Santoro
    Stima minima €1500
    Stima massima €2500
  • Hay Bernardo (Firenze 1864 - dopo il 1916)
    Contadine a Capri
    olio su tela, cm 78x46
    firmato e iscritto in basso a sinistra: Bernardo Hay Capri
    Stima minima €1800
    Stima massima €2500
  • Smargiassi Gabriele (Vasto, CH 1798 - Napoli 1882)
    Marina di Napoli con Lanterna del molo
    olio su carta rip. su tela, cm 28x41
    firmato e datato in basso a sinistra: Smargiassi 1834
    a tergo cartiglio Galleria Lauro, Napoli

    Abruzzese di nascita, Gabriele Smargiassi si formò a Napoli sotto Anton Sminck van Pitloo per poi viaggiare molto, incontrando i favori di molti aristocratici d’Oltralpe ed acquisendo gran notorietà. Nella capitale borbonica egli tornò solo nel 1837, alla morte del suo succitato mentore, per prenderne il posto alla cattedra di paesaggio presso il Real Istituto di Belle Arti.
    Come insegnante presso la futura Accademia partenopea lo Smargiassi in realtà divenne via via oggetto di molte critiche da parte dei propri allievi, e particolarmente aneddotica ed esemplificativa fu l’avversione nutrita nei suoi confronti da Filippo Palizzi e più in generale dagli esponenti delle nuove poetiche del vero che si svilupparono in seno alla Scuola napoletana verso la metà del secolo decimonono. Quello che andò allora consumandosi tuttavia non fu altro che il consueto scontro tra forze vecchie e nuove, tra generazioni differenti, tra un’impostazione più “accademica” e la voglia di rinnovamento e sperimentazione che è peculiare del fare artistico.
    Insomma non mancò certo in Smargiassi la ricerca del dato naturale, ed egli stesso all’infuori dell’insegnamento accademico fu solito studiare e dipingere dal vero (come professato già dal Pitloo), né minore importanza fu data all’invenzione (e cioè alla personalità del genio artistico) in favore di una mera imitazione della natura. Con una impostazione derivatagli per lo più dai grandi pittori fiamminghi e da Nicolas Poussin, dunque, la pittura del nostro autore seppe senza dubbio giungere con vivace spontaneità a vette di efficace bellezza, come è del resto reso evidente dall’opera qui proposta.
    Stima minima €4000
    Stima massima €7000
  • Brancaccio Carlo (Napoli 1861 - 1920)
    Terrazza ad Amalfi
    olio su tela, cm 46x65
    firmato in basso a sinistra: C. Brancaccio
    a tergo timbri Atelier C. Brancaccio -Parigi; riferimento asta Christie's

    Provenienza: Christie's, New York; Coll. privata, Napoli
    Bibliografia: Cat. 19th Century European Art and Orientalist Art, Christie's New York 2007, pg. 270; OTTOCENTO Cat. dell'arte italian dell'Ottocento e primo Novecento N. 40 Metamorfosi Ed. Milano 2011 tav .a colori

    Carlo Brancaccio fu tra i vari artisti campani che a cavallo fra Ottocento e Novecento, attirati dal clima di Parigi, allora capitale culturale dell’Europa intera e centro delle nuove tendenze pittoriche e cioè per lo più impressioniste, finirono per trasferirvisi, divenendo cantori della Belle Époque francese.
    Accanto alle varie vedute della Ville Lumière, di sicuro successo nel mercato locale (tanto più che il Brancaccio fu anche sostenuto dal potente Adolphe Goupil), il nostro artista non cessò mai di produrre scene urbane e marine squisitamente partenopee, anch’esse assai gradite ai collezionisti borghesi stranieri poiché squisitamente folkloristiche ed intrise di vivace piacevolezza visiva.
    L’opera proposta ricade in questa precisa produzione, già recando il timbro dell’atelier parigino del proprio autore; sulla tela è ben evidente l’influenza che sullo stile pittorico del Brancaccio (che, ricordiamo, si formò esclusivamente da autodidatta) ebbe Edoardo Dalbono, cosicché l’atmosfera delle vedute ritratte risulta sempre un po’ sognante, mentre i contrasti di tono e colore, pur sempre ben equilibrati, ricollegano l’artista partenopeo alla lezione dell’Impressionismo francese.
    Stima minima €8000
    Stima massima €14000
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933)
    Paesaggio campestre
    olio su tela, cm 36x53,5
    firmato in basso a destra: A. Campriani
    Stima minima €3500
    Stima massima €4500
  • Toma Gioacchino (Galatina, LE 1836 - Napoli 1891) Gentildonna in salotto
    olio su tela, cm 30x18,5
    firmato e datato in basso a sinistra: G. Toma 1862

    Provenienza: Coll. privata, Napoli

    Gioacchino Toma, rimasto prestissimo orfano
    di padre e di madre, trascurato e vessato dai
    parenti, crebbe solo, selvatico, senza maestri,
    senza amore, maturando nell’anima un’ideale
    tenerezza. Raccolto nell’Ospizio dei poveri di
    Giovinazzo, ne fuggì dopo avere percosso un compagno
    che l’offendeva. Riparando presso i parenti a
    Galatina, lo attendevano delusioni più tristi.
    Fuggito anche di lì, fece il servo a Napoli
    presso un vecchio pittore, patì i soprusi d’un
    imbrattatele che intendeva sfruttarlo, e si trovò nuovamente in strada. Arrestato nel 1857 con la falsa accusa di cospirazione, la prigione lo inasprì contro gli oppressori e gli fece sentire più forte l’amore per la libertà. In seguito Gioacchino Toma fu inviato al domicilio coatto a Piedimonte d’Alife,
    in provincia di Caserta. In quel luogo, grazie
    anche alle numerose richieste, dipinse una serie
    di ritratti della società alifana, benvoluto sia
    dalle famiglie Caso e Dal Giudice, avversi ai
    Borbone, che dai Gaetani di Laurenzana, vicini
    ai regnanti. Grazie proprio all’aiuto del duca di
    Laurenzana, Toma riuscì a tornare a Napoli nel 1859 e qui, iscrittosi al Real Istituto di Belle Arti sotto Giuseppe Mancinelli, esordirà alla Mostra borbonica di quell’anno presentando Erminia che scrive il nome di Tancredi sull’albero. La sua attività di ritrattista, seppur non considerevole, non si limitò al periodo alifano, quando si dedicò
    principalmente a ritrarre personalità del luogo
    in modo austero e raffinato, ma continuò verso
    la fine della carriera quando, forse spinto da
    sentimenti personali, raffigurò i familiari più
    stretti. Il quadro Gentildonna in salotto è datato
    1862 ed è di pochi anni successivo al quadro di
    Domenico Morelli La barca della vita eseguito
    nel 1859 e verso il quale, il Toma rende un
    doveroso omaggio replicandolo sulle pareti alle
    spalle della gentildonna.
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • De Gregorio Marco (Resina, NA 1829 - 1876)
    Intimità domestica
    olio su tela, cm 41,5x18

    Il dipinto in questione può essere attribuito con un buon grado di certezza alla mano di Marco De Gregorio in una fase matura della sua ricerca luministica. Il dipinto raffigura una scena di interno con una figura di ragazza intenta a lavorare all'uncinetto, seduta di profilo davanti a una finestra a vetri con un'anta aperta e l'altra accostata. Attraverso la finestra si vede distintamente un panorama di case napoletane sormontate dall'inconfondibile sagoma di Castel Sant'Elmo L'anta accostata con il suo vetro diviso in tre parti crea una modernissima scansione geometrica che non impedisce tuttavia la chiara visione dell'esterno. La luce intensa che penetra dalla finestra sottolinea in maniera filiforme il profilo della ragazza e la spalliera della sedia, mentre illumina in pieno la sua scamiciata bianca da cui escono delle maniche rosa di una camicetta sottostante. Il brano pittoricamente più interessante è proprio questo dell'abito realizzato con corpose pennellate sintetiche di grande modernità e tuttavia molto precise nel catturare i valori luminosi e i giochi d'ombra grigio-bluastri.
    L'interesse di De Gregorio per gli interni si era manifestato precocemente con l'opera intitolata Nello studio del pittore (già coll. D'Angelo) del 1853; tuttavia in quel dipinto la compiutezza disegnativa e.plastica delle forme e un uso della luce diffusa e indiretta proveniente da nord ci attestano una fase ancora in buona parte "accademica" del pittore. Nel suo percorso qualcosa comincia significativamente a cambiare intorno al 1860-61, quando fonda la Scuola di Resina e intraprende uno studio della luce dal vero più autentico e radicale. Al 1861 risale un interno con delle figure femminili in controluce sullo sfondo di una porta-finestra, che apparteneva alla collezione Polisiero e che tempo fa ho proposto di identificare, in via dei tutto ipotetica, con la Scena domestica esposta nella prima mostra della Società promotrice di Belle Arti di Napoli del 1862. L'esistenza di questo interno di De Gregorio attesterebbe che molto probabilmente non è stato Cecioni - pensionato a Napoli dal 1863 al 1867- a influenzare il nostro pittore, ma l'inverso; a meno che non si voglia ipotizzare una visita di De Gregorio alla Prima Esposizione Nazionale di Firenze del 1861, dove avrebbe potuto ammirare il dipinto di Odoardo Borrani 26 aprile 1859, che consisteva in un'intima scena domestica rischiarata dalla luce di una finestra sullo sfondo.
    In ogni caso, chiunque ne sia stato l'iniziatore, tale tema pittorico —tutto incentrato su una acuta analisi tanto luministica quanto plastico-volumetrica - sara ripreso sia da Borrani,che da Lega, che da Cecioni, che da De Gregorio in varie opere. In particolare, per quanto riguarda De Gregorio si possono segnalare nel suo catalogo diversi interni con figure sullo sfondo con finestre: I chierichetti, pubblicato per la prima volta da Corrado Maltese nel 1954. (ma da Stefano Gallo attribuito nel 1995, sia pure come ipotesi prudente, a Cecioni); Il piccolo gendarme (in Giosi 1966 e in Schettini 1967, vol II, p. 21), Cani e gatti, già di collezione Chiarandà, La cucitrice, passata da Giosi (1967) e da Finarte (Roma 1989 e Milano 1993), Interno con bambini e Mamma con bimbi, entrambi pubblicati da Schettini (Cento pittori napoletani, 1978, vol. I, pp.130 e 131).
    Tornando al dipinto oggetto di questo parere scientifico, per quanto riguarda la sottolineatura
    luministica del profilo in controluce riscontri ci sono con I chierichetti, con Il piccolo gendarme e in parte anche con Cani e gatti, ma le affinità maggiori si rilevano con il dipinto già della collezione barese Scuderi, Mamma con bimbi, nel modo di trattare i bianchi, nel tipo di pennellate sommarie e nel gioco dei riflessi. A De Gregorio rinvia anche una generale semplificazione della scena che non indugia su particolari superflui, ma si attiene a una schietta ripresa del vero. Per l'andamento delle pennellate sintetiche che lasciano trapelare la presenza e addirittura la grandezza del pennello adoperato, l'opera, a mio avviso appartiene ai primi anni '70 e presenta qualche affinità per il sistema di pennellate con un altro suo dipinto, di genere diverso, Zappatore, del 1873.

    Prof.ssa Mariantonietta Picone
    Stima minima €10000
    Stima massima €15000
  • Candido Salvatore (attivo 1823-1869)
    Via Caracciolo
    olio su tela, cm 31,5x43
    firmato e datato in basso a sinistra: Candido 1844
    a tergo timbro Coll. Giuseppe Guerriero

    Assente in ogni possibile documentazione del tempo nonché in ogni più tarda compilazione storico-biografica sugli artisti di scuola napoletana dell’Ottocento, Salvatore Candido costituisce tuttora un mistero per gli studi di settore, potendosi al massimo e solo ipoteticamente (secondo Renato Ruotolo) collegare alla personalità di Francesco Saverio Candido, attestato ritrattista che operò alla corte di Ferdinando IV e Maria Carolina d’Austria sul finire del Settecento.
    Questo autore può dunque definirsi solo attraverso le proprie opere, comunque poco diffuse e disperse fra varie collezioni private. In proposito di queste è stata comunque felicemente sottolineata la vicinanza ad elementi tanto della tipica gouache napoletana, in particolare alla maniera del tedesco Jakob Philipp Hackert, che della romanticheggiante Scuola di Posillipo, tanto che in un primo momento si è anche avanzata l’ipotesi che ci si trovasse di fronte ad uno pseudonimo per Giacinto Gigante o magari Salvatore Fergola, possibilità ormai definitivamente accantonata (Mauro di Mauro giustamente non riesce a riscontrare in Candido gli elementi fondanti della pennellata del Gigante).
    L’alone singolarmente enigmatico che circonda l’artista e le sue rare opere rafforza pertanto l’interesse collezionistico che negli ultimi anni sta sviluppandosi avidamente nei loro confronti.
    Stima minima €8000
    Stima massima €12000
  • Rossi Alberto (Torino 1858 - 1936)
    Piazza araba
    olio su tela, cm 47x66,5
    firmato e iscritto in basso a destra: Piazza ... Cairo, Egitto A. Rossi

    Nel mondo occidentale sempre più industrializzato ed alienante l’Oriente suscitò grande interesse nelle Arti fin dall’inizio dell’Ottocento, andando a costituire nell’immaginazione romantica una fuga spirituale verso luoghi lontani ed esotici, pregni perciò di una cultura aliena degna di conoscenza (e di ricostruzione storica, pensando all’esplosione al tempo delle ricerche archeologiche).
    Laddove molti artisti si limitarono sempre a solo immaginare le scene arabe, cadendo come è ovvio in inesattezze ed incomprensioni, altrettanti intrapresero invece uno o più viaggi verso quei luoghi, basando dunque i propri lavori su una più o meno rigorosa visione del dato reale (in accordo alle tendenze del tempo). L’opera proposta aderisce evidentemente a quest’ultima tendenza, corredata finanche di una precisa (ma difficilmente interpretabile) collocazione spaziale. Del resto l’autore Alberto Rossi (Torinese formatosi all’Accademia Albertina) fu proprio uno specialista e dunque un rappresentante di primaria importanza del movimento orientalista, trascorrendo in totale quasi trent’anni (dal 1891 al 1914 e poi di nuovo a partire dal 1928) di vita fra Egitto, Siria, Palestina, Turchia e Grecia.
    Stima minima €6000
    Stima massima €10000
  • Costantini Giuseppe (Nola, NA 1844 - San Paolo Belsito, NA 1894)
    Il cavalluccio
    olio su tela, cm 21,5x27
    firmato e datato in basso a destra: G. Costantini 1878

    Inizialmente orientato alla pittura di stampo morelliano (che intendeva cioè rappresentate composizioni d’invenzione secondo i canoni del realismo), Giuseppe Costantini virò presto, probabilmente per l’influenza su di lui esercitata dalle opere dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno (spesso presente alle mostre Promotrici di Napoli), verso un verismo di stampo fortemente intimista; pur nella scelta cioè di rappresentare di “ultimi” e la loro esistenza in miseria egli preferì selezionarne gli spaccati di vita più lieti, talvolta giocosi, in qualche modo consolanti: ecco allora le riunione intorno al piccolo focolare domestico, gli scherzi agli anziani, le più varie attività infantili.
    Lo stile pittorico, rispettando i dittami della pittura di genere del tempo, segue una virtuosistica meticolosità nel riportare anche nelle più piccole composizioni i dettagli più infinitesimali, riprendendo un agire che tradizionalmente era ed è tutt’oggi accostabile all’Arte fiamminga, di cui il Costantini adotta anche l’impianto luministico nella caratteristica scelta di rappresentare interni generalmente bui squarciati da singole fonti luminose, come la finestra dell’opera proposta.
    Stima minima €6000
    Stima massima €8000
  • Mancini Francesco detto Lord (Napoli 1830 - 1905) Ritorno da Montevergine
    olio su tela, cm 84,5x145
    firmato, iscritto e datato in basso a destra: Francesco Mancini Napoli 1903

    Provenienza: Coll.eredi dell'artista

    L’avvicinarsi a Francesco Mancini implica sempre e innanzitutto avere a che fare col soprannome “Lord”, certo bizzarro per un artista veracemente partenopeo, conquistato presso gli amici a causa del modo di fare “all’Inglese” che il pittore sviluppò e raffinò nel corso dei suoi frequenti soggiorni a Londra. Centrali infatti nell’attività del Mancini furono il suo cosmopolitismo (“lo ritroverete da per tutto, meno che in casa sua”, scrisse Della Rocca) ed il suo amore per una vita pienamente vissuta negli ambienti altoborghesi delle capitali della Belle Époque; questa convivialità ed uno spirito assai socievole bastarono secondo Mattia Limoncelli a distinguere Francesco dal quasi contemporaneo Antonio Mancini, genio pittorico dall’animo tormentato e dalla vita infelice.
    Andando con ordine, Francesco Mancini si formò presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli a partire dal 1844, frequentando prima la Cattedra di Disegno e quindi quella di Paesaggio, allora tenuta da Gabriele Smargiassi: quest’ultimo fu il primo vero mentore del nostro artista ed egli se ne allontanò più di dieci anni dopo, quando prese a frequentare lo studio di Filippo Palizzi; a questo punto è ovvio nonché corretto immaginare che dal punto di vista dello stile e della composizione il Mancini abbandonasse il convenzionalismo accademico di Smargiassi (già comunque attento agli studi dal vero) per avvicinarsi alla rivoluzione che stravolse l’ambiente artistico partenopeo intorno alla metà del diciannovesimo secolo sotto la guida proprio del Palizzi e poi di Domenico Morelli. Con questi due artisti (e con Altamura, Tedesco, Vertunni e gli artisti calabresi) Francesco condivise comunque anche gli ideali libertari risorgimentali, tradotti in una produzione pittorica dalle tematiche filogaribaldine (di cui i primi esempi furono esposti già alla Prima Promotrice Nazionale di Firenze del 1861) che, sostituendosi alle precedenti composizioni storiche romantiche e medievaleggianti, venne poi perpetuata ben oltre il compimento dell’Unificazione; negli anni Settanta il medesimo impegno politico fu alla base di un nuovo mutamento tematico in favore di soggetti sociali e protoveristi, mentre l’autore assumeva la cattedra di professore onorario all’allora Accademia di Belle Arti napoletana.
    Mentre già esponeva praticamente ogni anno alle mostre della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli (di cui fu socio fin dalla fondazione), gli anni Ottanta videro Mancini partecipare a quasi tutte le grandi Nazionali italiane, ma soprattutto egli impose la sua presenza all’estero, tra Parigi, Vienna, Monaco e, come si è accennato, Londra: i temi pittorici si arricchirono allora di scene riguardanti le attività tipiche dell’alta società locale, quali le battute di caccia o gli svariati eventi sportivi, e se questi particolari dipinti ebbero fortuna presso i collezionisti italiani e partenopei, interessati ad emulare l’eleganza d’Oltralpe e Oltremanica, il mercato straniero per converso acclamò e richiese avidamente folkloristiche composizioni sui costumi dell’Italia meridionale, quali i vari “Pellegrinaggi” ed il celebrato capolavoro “Il ritorno da Montevergine”, più volte replicato.



    Forse il soggetto di maggior successo collezionistico di Francesco “Lord” Mancini, il tema del ritorno dalla colorata e folkloristica processione a Montevergine (nei dintorno di Avellino) fu più volte replicato o declinato in versioni differenti, ed appunto la principessa Maria della Rocca scrive di averne visto “una cinquantina di schizzi nello studio di Mancini”; la stessa principessa del resto scrisse parole assai lusinghiere su questa particolare rappresentazione: “è una vera fotografia fatta al momento che ci passan dinanzi quei pittoreschi veicoli tirati dai loro focosi destrieri […] bisogna aver assistito a quello spettacolo per poterne apprezzare tutta la verità […] tutto è riprodotto con rara precisione”. Il carattere fotografico delle opere manciniane è stato più volte sottolineato, e risulta in questo caso quanto mai evidente, visto l’inusuale taglio angolare della visione che potrebbe anche collegare l’artista napoletano alle novità compositive della coeva pittura francese e cioè impressionista, certo almeno osservata dal partenopeo in occasione delle varie esposizioni parigine cui prese parte.
    La presenza dei carri nella scena consente inoltre all’autore di cimentarsi con uno dei suoi temi più cari, la rappresentazione cioè del cavallo (che tradisce l’influenza di Filippo Palizzi, rinomato per aver dato ai soggetti ferini pari dignità rappresentativa di quelli umani), indagato con rigorosa aderenza al vero e senza alcuna concessione fantasiosa in ogni sua posa ed atteggiamento, tanto in contesti più umili e popolari che nelle caccie o le corse dell’aristocrazia europea ed in particolare inglese.
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Mancini Francesco detto Lord (Napoli 1830 - 1905)
    Paesaggio col Monte Sant'Angelo
    olio su tela, cm 99,5x60
    a tergo cartiglio Mostra Celebrativa del Bicentenario, Accademia di belle arti di Napoli,Sett./Ott. 1954

    Provenienza: Coll. eredi dell'artista
    Esposizioni: Napoli 1954
    Bibliografia: Accademia di belle arti di Napoli, Mostra Celebrativa del Bicentenario 1752-1952 , L'Arte tipografica Napoli 1954 pag. 43 tav. LXXIin b/n

    Francesco “Lord” Mancini poté con l’allontanamento da Gabriele Smargiassi (al quale comunque l’arte sua fu profondamente debitrice) e l’avvicinamento a Filippo Palizzi dedicarsi alla più autentica e propria pittura di paesaggio piuttosto che al vedutismo accademico ancora di composizione tardo-settecentesca. Su quest’adesione manciniana alle nuove poetiche del vero tutte tese alla rigorosa descrizione del dato naturale anche nelle sue asperità (così come veniva per la prima volta contemplata la rappresentazione del “brutto” nella figura umana) vale la pena riportare quasi per intero un felice giudizio di Mattia Limoncelli: “la rappresentazione della natura – solida e rupestre in certe zone montuose, specie quelle soprastanti a Positano ove la leggiadria leggendaria, mitica delle cose cessa per ergersi al cielo brulla e selvaggia, talvolta persino paurosa ed inaccessibile – trovò in lui riflessi di una fedeltà austera, intransigente, tale da far pensare alla solidità costruttiva di un Palizzi e di un Cammarano, onde allo spettatore vien fatto di sentirsi di fronte ad una prosa robusta tutta volta a ridarci la dura vicenda, la mirabile prosodia delle masse che si ergono al cielo per mostrarci con le loro incomparabili strutture […] quel carattere di immensità che assieme a quella del cielo e del mare par fatto per non farci dimenticare la trascurabile piccolezza della nostra statura”. È in questa chiusa di ispirazione potremmo dire quasi kantiana che Limoncelli racchiude il suo alto giudizio sull’arte di Mancini, reputando quest’ultimo in possesso della rara qualità di saper trasmettere col paesaggio stati d’animo, d’essere in grado di restituire il più intimo segreto della Natura, quel sentimento cioè che vive nei suoi più vari aspetti e da essi permea.
    Stima minima €6000
    Stima massima €8000
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Ritratto di Giuseppina
    matita su carta, cm 30x21
    firmato e datato in basso a sinistra: V. Gemito 1918

    Divenuto Gemito per un banale errore anagrafico, a Vincenzo fu inizialmente dato il cognome Genito come era uso per i neonati abbandonati da genitori ignoti nella ruota della Pia Casa dell’Annunziata di Napoli. Il piccolo fu adottato dall’umile Giuseppina Baratta, che l’amò intensamente e fu in parte anche determinante per la sua carriera futura (come di primaria importanza fu il marito in secondo nozze di lei, Francesco Iadicicco detto Masto Cicco, modello di capolavori gemitiani quali la ‘Testa di filosofo’), se dobbiamo credere alla testimonianza che la vuole artefice dell’ingresso del giovane Vincenzo nello studio dello scultore Emanuele Caggiano, magari con la vana speranza di sottrarre il piccolo alla strada ove amava tergiversare, magari in compagnia dell’amico Antonio Mancini; il nostro tuttavia al Caggiano presto predilesse Stanislao Lista, colui che per primo introdusse in scultura le nuove poetiche del vero nate in seno all’ambiente artistico napoletano. Al naturalismo del suo mentore nonché alle esortazioni di quest’ultimo va ricondotta la terracotta del ‘Bruto’, presentata come prova di pensionato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1871 (Gemito risulta ivi iscritto dal ’64); secondo Fortunato Bellonzi un’ulteriore ispirazione per questa piccola opera fu il ‘Suicidia’ del toscano Adriano Cecioni, realizzato come saggio di pensionato proprio a Napoli nel 1865. Fatto sta che allora prese forma la peculiare novità che Gemito impresse alla scultura del tempo, unendo in modo assai particolare e con esiti sorprendente l’osservazione del dato reale all’assimilazione e la riproposizione dei modelli plastici ellenistici ed alessandrini e poi romani; non va dimenticato in proposito che del resto da non molto tempo erano allora ripresi gli scavi sistematici delle rovine di Ercolano e Pompei, da cui presto fu uso trarre numerosi calchi sui quali gli studenti d’Arte presero a formarsi.
    I più frequenti modelli almeno della prima produzione di Gemito furono gli scugnizzi partenopei che affollavano il cortile del monastero di Sant’Andrea delle Dame, ove l’artista fissò un proprio studio insieme ad altri artisti fra i quali il Mancini. Appartiene a questo filone produttivo il celebre ‘Pescatorello’ grande al vero del 1876, esposto con grande successo a Parigi ove Vincenzo si trattenne fra 1877 e ’80, protetto dai potenti Adolphe Goupil, mercante d’Arte, e Ernest Meissonnier, pittore pompier. Fra i suoi committenti e finanziatori stranieri non va poi dimenticato l’olandese Oscar de Mesnil, il cui supporto economico permise a Gemito di aprire una propria fonderia a Napoli (in via Mergellina) nel 1883.
    La personalità solitaria e meditativa (talvolta cupa) di Gemito, inasprita finanche dalle varie difficoltà della vita sua (funestata, va detto, da più tragedie), determinò comunque in lui una costante instabilità psichica che si acuì sul finire degli anni Ottanta, forse anche a causa delle difficoltà realizzative cui l’artista si trovò di fronte per le importanti committenze reali del ‘Carlo V’ (Napoli, Palazzo Reale) e di un ‘Trionfo da tavola’. Gemito dunque venne ricoverato presso la casa di cura Villa Fleurent di Capodichino, da cui tuttavia riuscì rocambolescamente ad evadere; cominciò allora un volontario esilio sociale e compositivo (continuò comunque l’attività della fonderia anche priva del proprio direttore) cui l’artista pose termine solo nel 1909, prendendo a scolpire una serie di opere in cui alla foga inventiva pare sostituirsi una cura maniacale della cesellatura e della lucida rifinitura, quasi si trattasse di antropomorfe oreficerie. L’ultima statua realizzata prima della morte fu probabilmente il ritratto del celebre attore partenopeo Raffaele Viviani, nel 1926.


    Legato in seconde nozze ad Anna Cutolo (detta Nannina o Cosarella), già modella di vari artisti suoi contemporanei (basti pensare che fu lei la ‘Dama con ventaglio’ di Domenico Morelli oggi alle Gallerie d’Italia presso Palazzo Zevallos Stigliano in Napoli), Vincenzo Gemito presto sviluppò nei confronti di lei, complice un carattere cupo ed instabile, un attaccamento morboso ed una gelosia forsennata (ci sono ad esempio trasmesse aneddotiche minacce in proposito al pittore Tommaso Celentano) che determinarono tanto ritratti di elevata poetica grafica che crisi nervose di cieca violenza, esiti questi talvolta sovrapposti fra loro: indimenticabile è il carbone su carta lumeggiato a biacca, raffigurante Nannina in lacrime e con la bocca vagamente contratta dal dolore, probabilmente causato dalle percosse del marito.
    Dalla morte prematura di Anna nel 1906 Gemito fu ad ogni modo profondamente scosso, e non è da escludersi che questa fu tra le cause scatenanti della vera e propria follia che l’obbligò poco dopo al ricovero in una casa di cura. Ad accudire l’artista subentrò allora la figlia della coppia, Giuseppina o Peppenella, che gli restò accanto fino alla fine; di quest’ultimo, fondamentale personaggio femminile gravitante nel cosmo dell’autore abbiamo in effetti un numero di ritratti sufficiente a documentarne le varie fasi della crescita fino all’età matura partendo dagli infantili momenti di placido riposo. L’opera proposta va dunque a costituire una ulteriore e finora inedita tappa di questo filone di produzione grafica.
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Ritratto muliebre
    matita su carta, cm 32x25
    firmato e datato in basso a sinistra: V. Gemito 1917

    Nella ricca produzione di disegni di Vincenzo Gemito forse appaiono più numerosi i soggetti femminili. Non vi è di fatto dubbio che le donne ebbero un ruolo di primo piano tanto nella vita privata dell’autore che nella sua opera, ed anzi forse fu proprio una donna a determinare l’ingente aumento di schizzi e disegni su carta del nostro artista: nel 1870 infatti giunse a Napoli, ospite dell’antiquario Duhamel, Mathilde Duffaud, prima modella di Antonio Mancini, poi del Gemito stesso, quindi amante di questi ed infine sua prima sposa nel 1873. La Duffaud tuttavia era allora già gravemente malata, e dunque la precarietà di un amore vissuto giorno per giorno, nel timore costante della sua fine, spinse Vincenzo a preferire alla scultura ed ai suoi più o meno lunghi tempi di esecuzione il più rapido movimento di matite e carboncini su carta, quasi a fissare più e più istantanee di ogni momento felice trascorso in compagnia dell’adorata compagna; l’intensificarsi di tale attività all’aggravarsi delle condizioni della Duffaud parrebbe poter confermare la nostra iniziale ipotesi. Sfortunatamente, il sogno d’amore di Gemito e Mathilde andò incontro alla sua fatale conclusione nel 1881, con la morte di lei presso Ercolano: quella fu forse la prima delle tragedie che condurranno col tempo l’artista alla pazzia.
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
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