Volpe Vincenzo (Grottaminarda, AV 1855 - Napoli 1929)
Concertino
olio su tela cm 93,5x77.5
firmato, datato e iscritto in basso a destra: V. Volpe Napoli 1888
Provenienza: Coll. E. Catalano Napoli
Enrico Somaré ci pare sintetizzò negli anni ’40 con grande arguzia il percorso artistico di Vincenzo Volpe: «ebbe per suo metro la misura, per suo criterio l’ordine, per suo strumento il mestiere e lo studio».
In un periodo infatti di grande fermento culturale, quello a cavallo fra i secoli diciannovesimo e ventesimo, tanto più a Napoli ove si scontravano la grande tradizione artistica ottocentesca ed i sentimenti filo-secessionisti delle nuove generazioni, Vincenzo Volpe seppe portare avanti una pittura meditata e composta, senza gli eccessi di tanti suoi contemporanei, nonché parsimoniosa, basata su di una esigua tavolozza cromatica in cui abbondarono i neutri bianco, nero, grigio («la chiave della sua sensibilità pittorica», scrisse Schettini). Il nostro inoltre garantì al Real Istituto di Belle Arti, di cui fu a lungo direttore, un transito senza eccessivi traumi attraverso questa tumultuosa fase, improntando i suoi insegnamenti a quelli ricevuti a sua volta da Domenico Morelli quando gli fu allievo a partire dal 1867, vinto il parere contrario della propria famiglia.
Sebbene appunto di scuola morelliana, Volpe s’avvicinò già nelle sue prime prove artistiche al verismo aneddotico certamente più vicino alla poetica di Filippo Palizzi, e tal genere pittorico rimase il principale all’interno della sua produzione (con varie concessioni tuttavia la paesaggio), considerato anche il successo che esso tipicamente aveva al tempo presso gli amatori d’arte locali ed internazionali, in cerca di una piacevole pittura di affetti.
L’opera proposta si colloca all’interno di questo filone, indagando più in particolare un momento più intimo di un uomo di chiesa, vero e proprio sottogenere di cui Volpe diede più prove (sin dal dipinto “Un prete”, esposto alla Universale parigina del 1878), fino a dedicarsi all’arte sacra vera e propria sul finire della propria carriera. La tavolozza è sì «limitata a una terra verde, a un rosso di Pozzuoli, a una terra bruciata, a un’ocra gialla» (Schettini), eppure il risultato è tutt’altro che scarno, e la luce domina tutta la scena. Il volto occhialuto e decrepito del monaco ricorda fortemente la vecchia protagonista di “Suor Colomba” e “Dottrina cristiana”, entrambi dipinti del 1884 (il primo fu esposto alla Promotrice napoletana di quello stesso anno mentre il secondo fu inviato alla Promotrice di Genova, ed apparve quest’ultimo anche a quella di Torino del 1885 ed a quella di Napoli del 1887, nonché è oggi di proprietà della Provincia).