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  • Pitloo Antonio Sminck (Arnhem 1790 - Napoli 1837)
    Il mulino del monaco a Gragnano
    olio su tela, cm 59,3x76,4
    firmato in basso a sinistra: Pitloo




    Seppure la formazione del Pitloo cominciò assai presto prima nella natia Olanda e dunque a Parigi, grazie al sostegno di Luigi Napoleone, fu alla caduta di quest’ultimo nel 1815 che il nostro artista, allora a Roma per un pensionato, si spostò per la prima volta a Napoli (su invito dell’amico conte Gregorio Orloff, diplomatico russo estimatore d’arte) potendo dar finalmente manifestazione alle sue idee artistiche. Il trasferimento nella capitale borbonica non fu immediato, ed anzi si verificò (dopo vari viaggi tra Roma, altre regioni italiane ed anche la Svizzera) solo nel 1820, allorché l’artista olandese vi aprì una scuola privata di pittura cui si iscrissero, tra gli altri, Sil’vestr Ščedrin, Giacinto Gigante, Achille Vianelli, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclère, Pasquale Mattej: venivano insomma gettate le basi della Scuola di Posillipo; l’abilità del Pitloo si distinse comunque rapidamente nell’ambiente artistico partenopeo, ed egli già nel 1822 venne nominato professore onorario del cittadino Real Istituto di Belle Arti, ove due anni dopo ottenne l’ancora nuova cattedra di Pittura di paesaggio, succedendo a Giuseppe Cammarano (per il concorso presentò il celebre “Boschetto di Francavilla”, oggi al Museo di Capodimonte).
    La fama rapidamente conquistata non costituì comunque per il Pitloo un punto di arrivo della sua arte, ed egli anzi fu sempre in cerca della novità, evolvendo di conseguenza continuamente il proprio fare artistico nel corso della sua intera produzione. Dunque dal 1824 il pittore risentì degli influssi del Bonington (autore inglese che ai Salon parigini ispirò pure i nascenti barbizonniers), allora presente a Napoli, mentre tra 1828 e ’34 l’arte sua si aprì allo stile di Corot, anche questi soggiornante nella capitale borbonica in quegli anni; contemporaneamente la pennellata del Pitloo va sfaldandosi, forse pure per la visione della mostra romana dedicata al Turner, e le sue ultime opere (il colera lo colse nel 1837)tendono all’estrema semplificazione di una vera e propria pittura di macchia. In questa costante evoluzione la tela proposta va probabilmente collocata poco prima del termine del terzo decennio del secolo, quando il giovane Pitloo pare ancora legato al vedutismo settecentesco e più in particolare ai modi pittorici di Hackert (il quale sotto Ferdinando IV precedette il nostro autore nella cattedra di Paesaggio al Real Istituto Borbonico), avendo tuttavia già preso a ritrarre i propri soggetti en plein air (la valle dei mulini di Gragnano fu tra i soggetti favoriti degli allievi della sua scuola, e basti qui ricordare le opere di Duclère in proposito) nonché avendo adottato qualche tratto poi tipico della sua produzione successiva (si notino le fronde degli alberi nei pressi del mulino). Sullo stesso soggetto l’artista olandese tornò sul finire della propria vita, creando un dipinto di macchia oggi al Museo Correale di Sorrento.
    Stima minima €15000
    Stima massima €25000
  • Cammarano Michele (Napoli 1835 - 1920)
    Suonatori ambulanti
    olio su tela, cm 110x71,5
    firmato in basso a sinistra: Mic. Cammarano


    Provenienza: Raccolta E. P. Milano; Coll. Apa Torre del Greco; Gall. Giosi, Napoli; Farsetti 2000; Coll. privata, Firenze; Coll. privata, Napoli


    Esposizioni: Milano, Gall. Guglielmi 23-26 Nov1939; Napoli Gall. Giosi 22-28 ottobre 1988

    Bibliografia: Opere pittoriche dell'Ottocento nella Raccolta E.P., Gall. Guglielmi, Milano 1939, n. ord. 229 Cat. Galleria Giosi Napoli 1988 n° cat 32 (in copertina )




    Figlio (e nipote) d’arte, Michele Cammarano crebbe dunque in un ambiente favorevole alla sua vocazione pittorica e si iscrisse pertanto appena possibile al Real Istituto di Belle Arti di Napoli, frequentando con merito e lodi gli insegnamenti dello Smargiassi e del Mancinelli. Insofferente tuttavia (come tanti suoi coetanei) nei confronti dell’accademismo distampo ancora romantico, Michele preferì formarsi principalmente sul naturalismo dei fratelli Palizzi, sfruttando però l’adesione al vero come mezzo di rappresentazione dei tumultuosi eventi storici che gli si andavano verificando attorno: arruolatosi nella guardia nazionale, all’epica risorgimentale ed alle prime grandi imprese del neonato Regno d’Italia furono dedicate importanti tele quali “Carica dei Bersaglieri a Porta Pia” del 1971 (non scevra da influenze di Géricault, che Cammarano vide a Parigi, l’opera è oggi al Museo di Capodimonte in Napoli) e “Il 24 Giugno a San Martino” del 1883 (Roma, GNAM), nonché il suo ultimo capolavoro, “Battaglia di Dogali”(1896, anch’essa a Roma).
    Se Maltese (uno dei protagonisti della rivalutazione critica del Cammarano nel corso del Novecento) ha giustamente sottolineato quanto all’artista interessassero in definitiva, più del preciso accadimento storico, la sua immediata violenta e l’intrinseca miseria dei suoi protagonisti, va detto che in effetti a queste tensioni drammatiche Michele già dedicò alcune opere antecedenti a quelle più propriamente “storiche”, con intenzioni del tutto assimilabili al Verismo di Verga in letteratura: ecco allora “Terremoto di Torre del Greco” e “Ozio e lavoro” (uno del 1861, oggi al Museo di San Martino, l’altro del 1863, oggi al Museo di Capodimonte), nonché “Incoraggiamento al vizio” (che scosse la Biennale veneziana del 1869, oggi in collezione privata) e “Rissa a Trastevere” (1887, conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Belle Arti napoletana).
    A questa temperie va ricondotta l’opera proposta, raffigurante in sostanza l’essenza stessa della miseria che trascende finanche i propri rappresentanti, due suonatori ambulanti in abiti assai sdruciti; finanche la strada sterrata che i due personaggi calpestano, nonché allo loro spalle la cadente struttura lignea e più indietro ancora il cielo cupo, contribuiscono tutti a trasmettere il malessere esistenziale della scena. Straordinaria, va detto, è la bambina, che scura in volto avanza la propria mano verso l’osservatore per chiedergli aiuto: sembra quasi anticipare di circa un secolo la memorabile sequenza cinematografica del neorealista “Umberto D.”, prodotto del genio desichiano. La tecnica è tipica del Cammarano, consistendo in densi impasti di colore (dati da grossi colpi di brossa o di paletta) su cui la luce crea giochi peculiari ed altamente intensi ed espressivi.
    Stima minima €16000
    Stima massima €25000
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Autoritratto
    tempera su carta, cm 52x40
    firmato e datato in basso a destra: V. Gemito 1916

    a tergo iscritto Galleria Bollardi Milano


    Provenienza: Galleria Bollardi Milano; Coll. T. Giosi Napoli; Coll. E. Catalano Napoli


    Bibliografia: A. Schettini, La pittura napoletana dell’Ottocento, Vol. II, E.D.A.R.T., Napoli 1967, pag. 271; N. D’Antonio, Pittura e Costume a Napoli fra Otto e Novecento. Incontri con Tullio Giosi, Ed. Fausto Fiorentino, Napoli 1995, pag. 52

    Vincenzo Gemito è stato a lungo l’unico artista napoletano del secolo diciannovesimo ed esser ricordato in pratica dalla storiografia di settore (fino alla recente riscoperta di tanti maestri suoi contemporanei), complici i numerosi riconoscimenti ottenuti in vita dentro e fuori la penisola italica nonché il favore riservatogli durante l’età fascista (addirittura dallo stesso Mussolini).
    Il solo udire il cognome di questo artista subito riporta alla mente la sua vasta e celeberrima produzione scultorea, tipicamente ricreata “per porre” di materiali semplici (soprattutto gesso e terracotta, e solo più tardi bronzo) ma altamente espressivi, nonché sempre all’insegna di una stretta aderenza al dato reale, così come Stanislao Lista (uno dei suoi primi maestri, insieme al Caggiano) andava propugnando in scultura allo stesso modo di Filippo Palizzi in pittura.
    Il genio di Gemito non sta tuttavia solo in opere quali il “Giocatore”, il “Pescatorello”, ’”Acquaiolo” (e generalmente tutti i numerosi ritratti di guappetielli locali) o il “Filosofo” (raffigurante il suo amato patrigno Masto Ciccio), ma anche (e anzi prima ancora, trattandosi spesso di studi preparatori) nella ricca produzione grafica, già lodata in passato da tanti maestri indiscussi: Alberto Savinio molto ne sottolineò il valore artistico, e suo fratello Giorgio De Chirico arrivò perfino a paragonare Gemito a Dürer! I disegni di Vincenzo cominciarono ovviamente col suo apprendistato artistico, come ovvi progetti cioè di successive creazioni scultoree, ma si fecero poi particolarmente numerosi e, soprattutto, fini a se stessi ed assolutamente indipendenti dall’arte favorita del proprio autore negli ultimi decenni della vita di questi, ovvero nel ventennio (circa) della follia, allorché sconvolgenti eventi nella biografia di Gemito uniti a delusioni in ambito lavorativo (specialmente legate, quest’ultime, alla difficile realizzazione delle commissioni reali per la statua del Carlo V per il Palazzo Reale di Napoli e per un “Trionfo da tavola” in argento da custodirsi presso la Reggia di Capodimonte) lo costrinsero finanche al ricovero; la particolarmente ricca produzione disegnativa viene insomma a spiegarsi attraverso la liberazione dalle ansie causate dai vincoli progettuali delle pressanti commissioni ricevute.
    Al termine del difficile periodo appena descritto va a collocarsi l’opera proposta, che nello sguardo attento ma ancora allucinato dell’artista autoritrattosi tradisce ancora le vestigia della crisi a malapena superata. Come felicemente intuirono sia il Somarè che il Siviero la caratteristica peculiare e più potente della grafica di Gemito sta nella sua concezione del disegno in profondità («simile anche in questo agli antichi») e non in superficie (come erano soliti invece fare i suoi contemporanei), restituendo all’osservatore una sensazione di spazialità tanto forte «da suscitare l’illusione che l’aria vi circoli».
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Irolli Vincenzo (Napoli 1860 - 1949)
    Figura femminile
    olio su tela, cm 104,5x64,5
    firmato in basso a sinistra: V. Irolli

    Quale felice destino avrebbe arriso a colui il quale si fosse innamorato dell’Arte, decidendo di dedicarvisi con tutto se stesso, alla grande esposizione nazionale tenutasi a Napoli nel 1877! In quell’occasione appunto Vinenzo Irolli decise di iscriversi al locale Real Istituto di Belle Arti, dove ebbe come maestri il Toma, il Maldarelli ed il Lista. Finanche il grande Domenico Morelli prese ad interessarsi a questo artista emergente apprezzandone le prime prove ritrattistiche presenti alle mostre della Promotrice napoletana, prime manifestazioni di una lunga ed intensa attività espositiva, coronata poi dalla partecipazione alla decorazione della birreria Gambrinus di Napoli nel 1890 (con il dipinto “Piedigrotta”).
    La vasta fama presso il grande pubblico Irolli la ottenne invece alcuni anni più tardi, quando la sua produzione pittorica prese a snodarsi quasi esclusivamente secondo i dittami di un vago realismo avente come soggetti preferiti donne, fanciulli ed animali in interni domestici, spesso arricchiti da brani di natura morta. Questi numerosi dipinti, sostanzialmente piacevoli e dunque facilmente commerciabili in Italia ed all’estero, nascevano da precise necessità economiche dell’artista e finirono probabilmente per migliorare il suo stile di vita, ma l’alto prezzo da pagare è stato per lungo tempo il disprezzo da parte della critica, che sovente ancora ritiene il “secondo” Irolli come un attardato folklorista emulo di artisti di grande successo presso i collezionisti (su tutti Antonio Mancini, sull’arte del quale in rapporto a quella del nostro autore è tuttora acceso un vivo dibattito).
    L’opera proposta si ricollega comunque alla prima e più felice produzione irolliana, collocandosi con ogni probabilità nel corso dell’ultimo decennio del secolo decimonono, vicina nella sua vaga malinconia a capolavori di poco antecedenti quali “Si diventa così”, “Mio ideale”, “Chiaroscuro” (conosciuto anche come “Meriggio”), un piccolo gruppo di opere insomma dal denso significato filosofico, sospese tra un gagliardo entusiasmo per la vita ed un incombente memento mori (tanto che l’amico Giovanni Bovio non s’espresse troppo positivamente nei loro riguardi). La tecnica adottata dall’artista in questo suo primo periodo è stata felicemente descritta da Valente, e consisteva essenzialmente in una base cromatica scura su cui venivano progressivamente a sovrapporsi pennellate più spesse di colore, a rifinire con variabile accuratezza i vari particolari della rappresentazione (completa finitezza era concessa solo ai visi ed alle parti scoperte del corpo umano).
    Stima minima €10000
    Stima massima €15000
  • Morelli Domenico (Napoli 1823 - 1901)
    Ritratto dell'architetto fiorentino Gaetano Bianchi
    olio su tela, cm 62x51
    firmato e datato in basso a destra: D. Morelli 1870
    a tergo cartiglio Mostra dei pittori italiani dell'800 Roma 1952


    Provenienza: Coll. Checcucci, Firenze; Coll. Portolano, Milano


    Esposizione: Roma 1952


    Bibliografia: Mostra dei pittori italiani dell'800 Roma 1952 tav. LIV; I Grandi pittori dell ottocento italiano- A. Schettini La scuola napoletana, A. Martello ed. 1961 Milano tav. XX



    È ben noto quanto la forte personalità di Domenico Morelli ed il suo carisma abbiano contribuito, unitamente come è ovvio alla sua mirabile arte, a farne un personaggio di primo piano per nulla limitato ai semplici dibattiti artistici del suo tempo. Un personaggio di tale spicco, ben presente nei salotti della migliore società, non poteva non attrarre le più ricche committenze, e pertanto dalla sua mano fioccarono numerosi ritratti (genere pittorico comunque tra i favoriti del nostro, se già risalgono ai primi anni Cinquanta dell’Ottocento varie rappresentazioni dei membri della famiglia Villari con lui poi imparentata): basti ricordare fra questi quelli di uomini illustri del tempo (il giureconsulto Antonio Starace al Museo di San Martino in Napoli, Gaetano Filangieri nell’omonimo museo della stessa città, Quintino Sella al Museo del Risorgimento), di grandi mecenati (Morelli ritrasse più volte Giovanni Vonwiller, il suo più celebre protettore, nonché vari membri della famiglia di questi, né va dimenticato il dipinto raffigurante Paolo Rotondo, dalla cui collezione è nata la celebre galleria del Museo di San Martino di Napoli), di molti artisti (famosissimo il “faticoso” ritratto del 1858 di Giuseppe Verdi, eseguito a quattro mani con Filippo Palizzi, mentre ancora al napoletano Museo di San Martino sono le raffigurazioni di don Giacinto Gigante e di Cesare Dalbono, allievo quest’ultimo del Morelli).
    Al filone dei ritratti di artisti va ricondotto questo proposto, raffigurante il fiorentino Gaetano Bianchi, probabilmente conosciuto dal Morelli negli anni del Caffè Michelangelo. Bianchi fu architetto e pittore, assai influenzato dal gusto tipicamente locale del tempo per la grande arte del Quattrocento toscano, ed ebbe gran fama per l’attività di eccellente restauratore: in Firenze intervenne sulla giottesca Cappella de’ Bardi in Santa Croce (nonché sugli affreschi della sagrestia della stessa chiesa), sulla chiesa di Orsanmichele e sul Bargello, nonché a più riprese sul Palazzo Vecchio; la succitata celebrità gli valse inoltre alcune committenze al di fuori delle mura della sua città, come (per citare le più importanti) i restauri degli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo e quelli del palazzo ducale di Mantova.
    Stima minima €7000
    Stima massima €12000
  • Leto Antonino (Monreale, PA 1844 - Capri, NA 1913)
    I figli del mare
    olio su tela, cm 60,5x80
    firmato e iscritto in basso a sinistra: A. Leto Capri
    Il dipinto è stato registrato negli archivi dell' Istituto Matteucci con il n° 411038



    Provenienza: Gall. A. Vitelli, Genova; Coll. privata, Torino; Sotheby's, Milano; coll. privata, Napoli




    Bibliografia: Sotheby's, Milano 2010; Ottocento.Catalogo dell’Arte italiana dell’Ottocento – primo Novecento, n.40, Ed. Metamorfosi Milano 2011, tav. a colori; G. L. Marini, Il valore dei dipinti dell'ottocento e del primo novecento, Allemandi & C. editore, XXIX ed. 2011/2012, pag. 451


    Non è evidentemente bastata la vicinanza di Antonino Leto a vari movimenti artistici, nonché i suoi frequenti spostamenti dentro e fuori l’Italia (come si vedrà), per garantire all’artista una fama pari a quella di cui ancora godono gli altri membri della Repubblica di Portici, il gruppo cui il nostro è più comunemente collegato;né sorprendentemente risultano numerose le sue opere, come ci si aspetterebbe dalla sua movimentata biografia, ed in proposito non è mancata l’opinione di qualche maligno il quale, in verità senza alcuna prova effettiva, ha paventato una fantomatica e bieca operazione commerciale che avrebbe attribuito alcuni dipinti del Leto a De Nittis così da venderli ad un prezzo maggiorato (in virtù della grande fama del secondo). Con quest’ultimo artista (e con tutti gli altri porticesi, nonché con Filippo Palizzi) Antonino strinse in effetti un sodalizio sin dal suo primo soggiorno in Campania nel 1864, apprese ormai le prime nozioni di pittura a Palermo presso Luigi Barba e Luigi Lojacono; né il nostro abbandonò la pittura di macchia tipica della Scuola di Resina spostandosi, dopo un periodo di pensionato presso Roma, a Firenze (dal 1876 al ’79), dove egli anzi maturò ulteriormente questo stile pittorico tramite la frequentazione dei macchiaioli; a Firenze inoltre il Leto suscitò l’interessa del Pisani, probabilmente il più importante mercante d’arte italiano del tempo, che commerciava opere locali, di scuola napoletana nonché di matrice spagnola (cioè della cerchia di Mariano Fortuny), proprio come a Parigi faceva contemporaneamente Goupil. Pure a quest’ultimo, celeberrimo personaggio il nostro artista fu legato da un contratto essendo a Parigi dal 1879, ma già tre anni dopo Antonino rientrava in Italia stabilendosi definitivamente a Capri, ove rimase fino alla propria fine.
    L’opera proposta rientra senza ombra di dubbio in quest’ultima produzione del Leto caratterizzata da soggetti marini e spesso più specificamente capresi. Il tempo trascorso non pare tuttavia aver intaccato la giovanile (ma come s’è detto poi di fatto assidua) adesione dell’artista ai dittami della Scuola di Resina, venendo il paesaggio sì rappresentato con un’attenta fedeltà al dato reale, cioè al vero (come da tempo propugnava Filippo Palizzi), ma non senza un certo filtro soggettivo e potremmo dire lirico (lontano però dalla poetica propriamente romantica): ad esempio i bimbi ritratti, che danno all’opera il suo nome così evocativo, sembrano infatti non distanziarsi troppo in definitiva da quelle sirene che si incontrano di tanto in tanto nelle opere degli altri porticesi o comunque coevi e che incantano i pescatori che stanno interdetti a guardarle.
    Stima minima €30000
    Stima massima €50000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899)
    La difesa dell'erba
    olio su tela, cm 49x73
    firmato e datato in basso a destra: Filip. Palizzi 1858


    Provenienza: Art Consulting, Modena; Gall. Vittoria Colonna, Napoli; Coll. privata, Napoli

    Bibliografia: G. L. Marini, Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento, X,
    Allemandi & C. editore, Torino 1993/1994, pag. 311; G. L. Marini, Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento, XXI, Allemandi & C. editore, Torino 2003/2004, pag. 462; L’Ottocento Napoletano, a cura di R. Caputo, catalogo della mostra, Galleria d’Arte Vittoria Colonna, Napoli Dicembre 2005, pp. 44-45, n.21



    Ad appena un anno circa dalla morte di Filippo Palizzi già Domenico Morelli, suo amico di una vita (non senza una certa competizione), sottolineava come l’artista fosse stato un grande riformatore della pittura in chiave antiaccademica. In effetti Filippo al Real Istituto di Belle Arti di Napoli (ove egli giunse da Vasto nel 1836 sulle orme del fratello Giuseppe) resistette appena tre mesi, prendendo poi a frequentare insofferente a qualsiasi accademismo la libera scuola di Giuseppe Bonolis, dove venne fatalmente in contatto con le idee di Francesco De Sanctis: queste ultime, nonché i bandi di alcuni concorsi artistici cui volle prender parte, spinsero il nostro a studiare attentamente i propri soggetti dal vero, uso divenuto poi costante in tutta la sua produzione successiva, in particolar modo a partire dal 1847, quando Filippo prese a trascorrere ogni estate presso Cava dei Tirreni ove, egli scrisse, si trovavano «montagne, alberi, acqua, tutto; certi tipi di uomini, di donne, di una espressione ingenua, naturale, non convenzionale come in città».
    Questi interessi sono tutti presenti nell’opera proposta, sebbene appaia chiaro che tanto il paesaggio agreste quanto i due contadini in costumi popolari (allo studio di quest’ultimi Filippo dedicò un intero soggiorno in Basilicata nel corso del 1841) non siano altro che corollari all’attenta e minuziosa rappresentazione animalistica che caratterizza la maggior parte dell’opera palizziana: protagonisti assoluti della tela risultano infatti l’asinello centrale e le capre che lo circondano, tutti tesi in una dinamica che richiama chiaramente la precedente “Difesa del gregge” del 1854, ove però lo studio ancora pedissequo dei modelli da incisioni altrui s’era tradotto in pose forzate e convenzionali, mentre è qui prorompente la spontaneità conquistata attraverso la piena maturazione del linguaggio pittorico dell’autore; le capre del resto già compaiono in vari dipinti del Palizzi (basti qui ricordare il gruppo oggi all’Accademia di Belle Arti in Napoli), e pure il fieno cui esse avidamente anelano pare riprendere “Un fascio d’erba di primavera”, conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Roma nella celebre sala dedicata al grande artista abruzzese.
    Stima minima €35000
    Stima massima €55000
  • Donzelli Bruno (Napoli 1941)
    Colazione da Mirò
    olio su tela, cm 30x24
    firmato in basso a destra: Donzelli
    Autentica su foto dell'artista
    Stima minima €450
    Stima massima €750
  • Persico Mario (Napoli 1930)
    Danzatori
    olio su tavola, cm 18x28
    firmato e datato in basso a destra: M. Persico 59
    a tergo timbro e firma dell'artista
    Autentica su foto dell'artista
    Stima minima €300
    Stima massima €600
  • Spinosa Domenico (Napoli 1916 - 2007)
    Scontro
    tecnica mista su cartone, cm 35x50
    firmato in basso a sinistra: Spinosa
    Autentica su foto dell'artista
    Stima minima €500
    Stima massima €800
  • De Stefano Armando (Napoli 1926)
    Personaggi
    tecnica mista su carta, cm 35x25
    firmato in basso a destra: De Stefano
    Autentica su foto dell'artista
    Stima minima €400
    Stima massima €700
  • Lippi Raffaele (Napoli 1911 - 1982)
    Figura in verde
    olio su tela di juta, cm 50x40
    firmato e datato in basso a sinistra: Lippi 77
    Stima minima €400
    Stima massima €800
  • Lippi Raffaele (Napoli 1911 - 1982)
    Madre e figli
    olio su tela, cm 25x25
    firmato in basso a sinistra: Lippi
    Stima minima €400
    Stima massima €800
  • Gambedotti Nicola (Roma 1931 - Napoli 2011)
    La scampagnata
    olio su tavola, cm 70x60
    firmato in basso a sinistra: Nicola Gambedotti
    Stima minima €600
    Stima massima €900
  • Barisani Renato (Napoli 1918 - 2011)
    Quadrato diviso
    tecnica mista e collage su tavola, cm 48x48
    firmato e datato in alto a destra: R. Barisani 1968
    Stima minima €700
    Stima massima €1000
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