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  • Mancini Francesco detto Lord (Napoli 1830 - 1905)
    Paesaggio col Monte Sant'Angelo
    olio su tela, cm 99,5x60
    a tergo cartiglio Mostra Celebrativa del Bicentenario, Accademia di belle arti di Napoli,Sett./Ott. 1954

    Provenienza: Coll. eredi dell'artista
    Esposizioni: Napoli 1954
    Bibliografia: Accademia di belle arti di Napoli, Mostra Celebrativa del Bicentenario 1752-1952 , L'Arte tipografica Napoli 1954 pag. 43 tav. LXXIin b/n

    Francesco “Lord” Mancini poté con l’allontanamento da Gabriele Smargiassi (al quale comunque l’arte sua fu profondamente debitrice) e l’avvicinamento a Filippo Palizzi dedicarsi alla più autentica e propria pittura di paesaggio piuttosto che al vedutismo accademico ancora di composizione tardo-settecentesca. Su quest’adesione manciniana alle nuove poetiche del vero tutte tese alla rigorosa descrizione del dato naturale anche nelle sue asperità (così come veniva per la prima volta contemplata la rappresentazione del “brutto” nella figura umana) vale la pena riportare quasi per intero un felice giudizio di Mattia Limoncelli: “la rappresentazione della natura – solida e rupestre in certe zone montuose, specie quelle soprastanti a Positano ove la leggiadria leggendaria, mitica delle cose cessa per ergersi al cielo brulla e selvaggia, talvolta persino paurosa ed inaccessibile – trovò in lui riflessi di una fedeltà austera, intransigente, tale da far pensare alla solidità costruttiva di un Palizzi e di un Cammarano, onde allo spettatore vien fatto di sentirsi di fronte ad una prosa robusta tutta volta a ridarci la dura vicenda, la mirabile prosodia delle masse che si ergono al cielo per mostrarci con le loro incomparabili strutture […] quel carattere di immensità che assieme a quella del cielo e del mare par fatto per non farci dimenticare la trascurabile piccolezza della nostra statura”. È in questa chiusa di ispirazione potremmo dire quasi kantiana che Limoncelli racchiude il suo alto giudizio sull’arte di Mancini, reputando quest’ultimo in possesso della rara qualità di saper trasmettere col paesaggio stati d’animo, d’essere in grado di restituire il più intimo segreto della Natura, quel sentimento cioè che vive nei suoi più vari aspetti e da essi permea.
    Stima minima €6000
    Stima massima €8000
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Ritratto di Giuseppina
    matita su carta, cm 30x21
    firmato e datato in basso a sinistra: V. Gemito 1918

    Divenuto Gemito per un banale errore anagrafico, a Vincenzo fu inizialmente dato il cognome Genito come era uso per i neonati abbandonati da genitori ignoti nella ruota della Pia Casa dell’Annunziata di Napoli. Il piccolo fu adottato dall’umile Giuseppina Baratta, che l’amò intensamente e fu in parte anche determinante per la sua carriera futura (come di primaria importanza fu il marito in secondo nozze di lei, Francesco Iadicicco detto Masto Cicco, modello di capolavori gemitiani quali la ‘Testa di filosofo’), se dobbiamo credere alla testimonianza che la vuole artefice dell’ingresso del giovane Vincenzo nello studio dello scultore Emanuele Caggiano, magari con la vana speranza di sottrarre il piccolo alla strada ove amava tergiversare, magari in compagnia dell’amico Antonio Mancini; il nostro tuttavia al Caggiano presto predilesse Stanislao Lista, colui che per primo introdusse in scultura le nuove poetiche del vero nate in seno all’ambiente artistico napoletano. Al naturalismo del suo mentore nonché alle esortazioni di quest’ultimo va ricondotta la terracotta del ‘Bruto’, presentata come prova di pensionato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1871 (Gemito risulta ivi iscritto dal ’64); secondo Fortunato Bellonzi un’ulteriore ispirazione per questa piccola opera fu il ‘Suicidia’ del toscano Adriano Cecioni, realizzato come saggio di pensionato proprio a Napoli nel 1865. Fatto sta che allora prese forma la peculiare novità che Gemito impresse alla scultura del tempo, unendo in modo assai particolare e con esiti sorprendente l’osservazione del dato reale all’assimilazione e la riproposizione dei modelli plastici ellenistici ed alessandrini e poi romani; non va dimenticato in proposito che del resto da non molto tempo erano allora ripresi gli scavi sistematici delle rovine di Ercolano e Pompei, da cui presto fu uso trarre numerosi calchi sui quali gli studenti d’Arte presero a formarsi.
    I più frequenti modelli almeno della prima produzione di Gemito furono gli scugnizzi partenopei che affollavano il cortile del monastero di Sant’Andrea delle Dame, ove l’artista fissò un proprio studio insieme ad altri artisti fra i quali il Mancini. Appartiene a questo filone produttivo il celebre ‘Pescatorello’ grande al vero del 1876, esposto con grande successo a Parigi ove Vincenzo si trattenne fra 1877 e ’80, protetto dai potenti Adolphe Goupil, mercante d’Arte, e Ernest Meissonnier, pittore pompier. Fra i suoi committenti e finanziatori stranieri non va poi dimenticato l’olandese Oscar de Mesnil, il cui supporto economico permise a Gemito di aprire una propria fonderia a Napoli (in via Mergellina) nel 1883.
    La personalità solitaria e meditativa (talvolta cupa) di Gemito, inasprita finanche dalle varie difficoltà della vita sua (funestata, va detto, da più tragedie), determinò comunque in lui una costante instabilità psichica che si acuì sul finire degli anni Ottanta, forse anche a causa delle difficoltà realizzative cui l’artista si trovò di fronte per le importanti committenze reali del ‘Carlo V’ (Napoli, Palazzo Reale) e di un ‘Trionfo da tavola’. Gemito dunque venne ricoverato presso la casa di cura Villa Fleurent di Capodichino, da cui tuttavia riuscì rocambolescamente ad evadere; cominciò allora un volontario esilio sociale e compositivo (continuò comunque l’attività della fonderia anche priva del proprio direttore) cui l’artista pose termine solo nel 1909, prendendo a scolpire una serie di opere in cui alla foga inventiva pare sostituirsi una cura maniacale della cesellatura e della lucida rifinitura, quasi si trattasse di antropomorfe oreficerie. L’ultima statua realizzata prima della morte fu probabilmente il ritratto del celebre attore partenopeo Raffaele Viviani, nel 1926.


    Legato in seconde nozze ad Anna Cutolo (detta Nannina o Cosarella), già modella di vari artisti suoi contemporanei (basti pensare che fu lei la ‘Dama con ventaglio’ di Domenico Morelli oggi alle Gallerie d’Italia presso Palazzo Zevallos Stigliano in Napoli), Vincenzo Gemito presto sviluppò nei confronti di lei, complice un carattere cupo ed instabile, un attaccamento morboso ed una gelosia forsennata (ci sono ad esempio trasmesse aneddotiche minacce in proposito al pittore Tommaso Celentano) che determinarono tanto ritratti di elevata poetica grafica che crisi nervose di cieca violenza, esiti questi talvolta sovrapposti fra loro: indimenticabile è il carbone su carta lumeggiato a biacca, raffigurante Nannina in lacrime e con la bocca vagamente contratta dal dolore, probabilmente causato dalle percosse del marito.
    Dalla morte prematura di Anna nel 1906 Gemito fu ad ogni modo profondamente scosso, e non è da escludersi che questa fu tra le cause scatenanti della vera e propria follia che l’obbligò poco dopo al ricovero in una casa di cura. Ad accudire l’artista subentrò allora la figlia della coppia, Giuseppina o Peppenella, che gli restò accanto fino alla fine; di quest’ultimo, fondamentale personaggio femminile gravitante nel cosmo dell’autore abbiamo in effetti un numero di ritratti sufficiente a documentarne le varie fasi della crescita fino all’età matura partendo dagli infantili momenti di placido riposo. L’opera proposta va dunque a costituire una ulteriore e finora inedita tappa di questo filone di produzione grafica.
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Ritratto muliebre
    matita su carta, cm 32x25
    firmato e datato in basso a sinistra: V. Gemito 1917

    Nella ricca produzione di disegni di Vincenzo Gemito forse appaiono più numerosi i soggetti femminili. Non vi è di fatto dubbio che le donne ebbero un ruolo di primo piano tanto nella vita privata dell’autore che nella sua opera, ed anzi forse fu proprio una donna a determinare l’ingente aumento di schizzi e disegni su carta del nostro artista: nel 1870 infatti giunse a Napoli, ospite dell’antiquario Duhamel, Mathilde Duffaud, prima modella di Antonio Mancini, poi del Gemito stesso, quindi amante di questi ed infine sua prima sposa nel 1873. La Duffaud tuttavia era allora già gravemente malata, e dunque la precarietà di un amore vissuto giorno per giorno, nel timore costante della sua fine, spinse Vincenzo a preferire alla scultura ed ai suoi più o meno lunghi tempi di esecuzione il più rapido movimento di matite e carboncini su carta, quasi a fissare più e più istantanee di ogni momento felice trascorso in compagnia dell’adorata compagna; l’intensificarsi di tale attività all’aggravarsi delle condizioni della Duffaud parrebbe poter confermare la nostra iniziale ipotesi. Sfortunatamente, il sogno d’amore di Gemito e Mathilde andò incontro alla sua fatale conclusione nel 1881, con la morte di lei presso Ercolano: quella fu forse la prima delle tragedie che condurranno col tempo l’artista alla pazzia.
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Ritratto virile
    matita su carta, cm 27x20,5
    firmato, datato e iscritto in basso a destra:Gemito 1917 aprile 23 Napoli

    La pratica del disegno caratterizzò particolarmente l’ultima fase produttiva di Vincenzo Gemito, quella cioè almeno successiva al suo ricovero. Sarebbe tuttavia errato immaginare che l’artista non vi avesse mai indugiato prima, ed appunto sono trasmesse testimonianze di suoi ritratti fin dal giovanile apprendistato presso lo studio dello scultore Emanuele Caggiano; è singolare, in queste occasioni, che venga sottolineata “l’intenzione, costantemente perseguita, di evidenziare il rilievo prospettico, quasi cavandolo dalla superficie piatta del foglio di carta”, poiché tale tendenza pare permeare allo stesso modo tutti i disegni successivi: Gemito, insomma, pare in grado di dare una realizzazione plastica anche alle sue opere solo bidimensionali, “simile anche in questo agli antichi, che concepivano il disegno in profondità, e diverso dai moderni che lo svolgono in superficie” (Enrico Somarè). Particolarmente ispirata ed esemplificativa risulta allora una nota di Carlo Siviero: “Nessun disegnatore, prima e dopo di Gemito, diede la sensazione precisa che il bianco della carta, sopra cui stacca una forma, ne sia tanto lontano da suscitare l’illusione che l’aria vi circoli intorno”.
    Stima minima €2000
    Stima massima €4000
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