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ASTA N. 99 - 100 16.04.2016 17:00 NAPOLI Visualizza le condizioni
ASTA N. 99

- IMPORTANTI SCULTURE DA PRESEPE DEL XVIII E XIX SECOLO, PROVENIENTI DA UNA RACCOLTA PRIVATA.

SCHEDE ED ATTRIBUZIONI A CURA DELLA DOTTORESSA MARISA PICCOLI CATELLO

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ASTA N.100

- DIPINTI ANTICHI E DEL XIX SECOLO PROVENIENTI DA PRESTIGIOSE RACCOLTE PRIVATE.

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Esposizione:
da sabato 9 a venerdì 15 Aprile 2016
10:00 - 19:00
domenica 10: 10:00-14:00 / 16:00-20:00

CHIUSURA PRE-ASTA sabato 16 ore 14.00
  • de Sanctis Giuseppe (Napoli 1858 - 1924) Figura femminile olio su tela, cm 70x50 firmato e datato in alto a destra: Gius. de Sanctis 1885 Provenienza: Coll. privata, Roma
    Sembrerebbe quasi che essere tenuto a battesimo dal grande compositore Verdi e portarne per giunta il nome abbia segnato in qualche modo il destino di Giuseppe de Sanctis fin dalla più tenera età: affidato ben presto ad un altro celebre
    amico di famiglia, Domenico Morelli, gli si prospettava una lunga carriera di trionfi in campo artistico. Nonostante gli studi dal vero infatti il giovane de Sanctis sviluppò subito interesse per le composizioni storiche e le ambientazioni esotiche, entrambi generi di grande successo sul mercato internazionale.
    L’essersi orientato dunque verso una pittura molto gradita al pubblico borghese raffinato e cosmopolita condusse de Sanctis, probabilmente per intercessione del potente mercante Goupil amico del Morelli, a viaggiare frequentemente alla volta delle più importanti capitali europee, come ad esempio Londra e Parigi dove entrò in contatto rispettivamente
    con Lawrence Alma Tadema e Jean-Léon Gérôme; nella Ville Lumière l’artista ebbe inoltre occasione di partecipare più volte agli accorsati Salon, accrescendo ulteriormente la propria fama.
    Spesso ispirato dalle vedute di Venezia nonché nominato ritrattista ufficiale della famiglia reale, l’attività in Italia di de Sanctis si svolse tuttavia (com’era ovvio) principalmente nella natia Napoli: ivi notevole fu la sua militanza all’interno
    del Circolo Artistico Politecnico (fondato nel 1890 dalle vestigia della Società Promotrice di Belle Arti), per il quale realizzò poi le tele che adornavano la cosiddetta “farmacia” (la sala delle discussioni poetico-letterarie), nonché la
    partecipazione alla decorazione del Gran Caffè Gambrinus, allora da poco ristrutturato su progetto dell’architetto Curri.
    Agli inizi del XX secolo l’artista fu anche insignito del titolo di professore alla Scuola di pittura delle Belle Arti in aiuto del titolare Vincenzo Caprile, mentre circa venti anni dopo ottenne la cattedra di Incisione all’interno della
    stessa istituzione accademica: molto documentata infatti (seppur forse meno conosciuta) è l’attività di de Sanctis nel campo della grafica, di cui ci restano a pregevolissimo esempio riproduzioni di celebri capolavori quali La tentazione di
    Sant’Antonio del Morelli (acquaforte) e La carica dei bersaglieri a Porta Pia di Michele Cammarano (incisione).
    L’opera proposta raccorda due temi assai cari all’autore, ovvero la già citata, fantasiosa rappresentazione di ambienti esotici e la raffinata figurazione di sensuali soggetti femminili (quest’ultima particolarmente apprezzata per esecuzione dalla critica del tempo). Dalla datazione riportata si potrebbe anche ipotizzare l’identificazione con uno dei due dipinti che, insieme alla celebre Preghiera della sera a Bisanzio (più volte in mostra anche in varie città europee), furono esposti alla Promotrice napoletana del 1886: se il Salotto giapponese evoca ovviamente atmosfere d’estremo Oriente, Fatma lascerebbe immaginare invece un setting arabeggiante, per cui la chiave interpretativa risiederebbe nell’attribuzione all’una o all’altra area geografica del ricercato portariviste ad intarsio e dell’eccentrico abbigliamento della protagonista della tela.
    Le larghe vesti della donna hanno inoltre una loro parte nel gioco cromatico sapientemente orchestrato dall’autore:l’intera composizione è in effetti basata su tenui variazioni del blu e del celeste, del rosa, del giallo e del bianco, ed i passaggi tra tinte e mezze tinte sono tanto graduali e delicati che i corpi quasi sembrano mimetizzarsi
    nell’ambiente, divenendone indissolubilmente parte; maggiore corposità e definizione sono conferite solo al citato mobiletto, al vivido dettaglio floreale e al dolce, pingue volto della ragazza, tutti elementi che, seguendo il fascio di luce che diagonalmente
    colpisce l’opera dal basso verso l’alto (osservando attentamente le ombre), sembrano guidare l’occhio dell’osservatore alla progressiva e sensuale scoperta di questo piccolo capolavoro.
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Duclere Teodoro (Napoli 1815 - 1869) Tracciato del Corso Maria Teresa olio su tela, cm 30x44 iscritto in basso a destra: le 28 Juillet 1853 a tergo firmato: T. Ducler; timbro Galleria Giosi,Napoli Provenienza: Tullio Giosi, Napoli; Collezione privata, Napoli Esposizioni: Napoli, 1999; Napoli, 2002; Modena, 2003 Bibliografia: Alfredo Schettini, La pitturanapoletana dell'ottocento, Napoli 1967, vol. I, tav. p. 25; Catalogo Galleria Giosi, Napoli 1999, tav. 36; Catalogo Ottocento, Torino 1999, p. 281; Catalogo Ottocento, Torino 2000, p. 305; Catalogo Ottocento, Milano 2000, n. 29 p. 175; Renato Ruotolo, La Scuola di Posillipo, Napoli 2002, p. 131; Rosario Caputo, Panorama Pittorico Napoletano dell'Ottocento, Napoli 2002, p. 47; scheda di Patrizia Piscitello in L'Ottocento napoletano dalla veduta alla trasfigurazione del vero, a cura di Luisa Martorelli, Modena 2003, pp. 22-23; Rosario Caputo, Infinite emozioni La Scuola di Posillipo, Napoli 2010, p. 181
    L’insolito scorcio cittadino reso nel dipinto in oggetto, al di là dell’interesse paesaggistico demandato da Duclère alla resa atmosferica e al taglio, ha un valore documentario di carattere eminentemente storico-urbanistico: difatti la data
    posta al dipinto dal pittore “le 28 Juillet 1853” documenta con voluta precisione che sono trascorsi esattamente due mesi dall’inaugurazione del nuovo corso cittadino, intitolata alla augusta regina Maria Teresa, moglie di Ferdinando II di Borbone, al quale si deve il merito di avere promosso i lavori per la realizzazione del corso che, andando dalla
    Cesarea a Piedigrotta, a mezza costa, rendeva accessibile tutta la parte più alta della città. La costruzione della strada fu ordinata verso la fine del 1852, ne fu aperta la traccia il 6 aprile del 1853 e fu inaugurata il 28 maggio di quell’anno.
    L’avvenimento viene celebrato nel Giornale del Regno delle due Sicilie, in data 31 maggio 1853: “La traccia aperta il dì 6 aprile, è stata dalle LL. MM. Trascorsa in coccio il dì 28 maggio. In soli 44 giorni il vivo della montagna ha ceduto al ferro di mille operai, sei valli hanno indossato altrettanti ponti, dei quali due più alti che non è quello della Sanità a Capodimonte; sonosi dileguati gli ostacoli d’ogni sorta nella lunghezza di altre due miglia e mezzo, la strada insomma fu immaginata e fatta; e bellissima tra le belle che ornano il globo terraqueo, ...” (L. De la Ville sur-Yllon, Il Corso
    Vittorio Emanuele, in “Napoli Nobilissima”, IX, 1900, pp. 177-181, p. 18). L’inaugurazione del 28 maggio coinvolse le autorità cittadine e i festeggiamenti si protrassero fino a sera in tutta la città. Duclère rende in questo dipinto, con il
    segno agile e sintetico che caratterizza le sue opere, una veduta aperta della città che, attraverso il punto di vista alto, gli consente di tracciare il golfo dal lato di Mergellina e di Posillipo, con il profilo di Capri sulla sinistra, senza trascurare
    una attenta ricostruzione urbanistica.
    Il punto di ripresa si trova in quella parte del Corso che attualmente si innesta con parco Grifeo, mentre in lontananza si intravedono altri tornanti che prolungano il sentiero in direzione di Mergellina. Immediatamente a valle è ben riconoscibile la compatta cortina dei palazzi che si snodano sull’antica via Campana (attuale via Piscicelli), nel tratto che va dall’Ascensione (non visibile nell’immagine) a Santa Maria in Portico, la cui cupola svetta sulle case del borgo di Chiaia. L’inconsueto punto di vista non consente di osservare l’arco del litorale di Chiaia, ma si intravedono solo alcuni dei palazzi emergenti sulla Riviera, come il Palazzo d’Alarçon (poi residenza del Conte di Siracusa). In lontananza,illuminate dalla piena luce solare, appaiono le case del borgo di Mergellina oltre le quali si prolunga sullo sfondo il promontorio di Posillipo. Purtroppo i lavori cominciati e inaugurati così rapidamente, proseguirono con grande lentezza. I ponti che nella primavera del ‘53 furono realizzati in legno, vennero costruiti in muratura assai più tardi e si
    può dire che fino al 1860 - anno in cui, dopo la conquista di Garibaldi, il Corso fu dedicato al primo re d’Italia, Vittorio Emanuele - la via era rimasta quasi solo tracciata.
    Stima minima €12000
    Stima massima €18000
  • Irolli Vincenzo (Napoli 1860 - 1949) Ritratto muliebre olio su tela, cm 74x74 firmato in basso a destra: V. Irolli

    Provenienza: Coll. Gualtieri, Napoli; Coll.Privata, Napoli

    Esposizioni: 7-8 novembre 1929, Milano. Bibliografia: Cat. Galleria Scopinich, Maestri napoletani dell'800 nella Collezione Gualtieri, Rizzoli & C., Milano 1929
    Stima minima €6500
    Stima massima €12500
  • Celentano Bernardo (Napoli 1835 - Roma 1863) Il sacco di Roma olio su tela, cm 32x22,5 firmato in basso a sinistra: Celentano a tergo timbro Gall. Giosi Napoli Provenienza:Coll. privata, Roma; Coll. privata, Napoli Esposizioni: Napoli, 1985; Napoli, 2002 Bibliografia: Galleria Bianchi d’Espinosa, Catalogo n.75, Napoli marzo 1985, Tav..18; R. Caputo, Panorama pittorico napoletanodell’Ottocento, Catalogo mostra Hotel Excelsior Napoli n. 10, Galleria Vittoria Colonna, Napoli 2002, p. 38-39; G.L. Marini, Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento, ed. XXII, Torino 2004-2005, p. 219.
    Bernardo Celentano, allievo di Camillo Guerra presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli, esordì alla mostra borbonica del 1851. Dal 1852 cominciò a frequentare la scuola privata di Mancinelli, dedicandosi al nudo ma incominciando a rendere più complessi gli stati d’animo dei suoi personaggi, cercando di individuare e riproporre
    per di più il sentimento di ciascuno. Tuttavia su consiglio di Morelli e per uscire dalla gabbia dell’accademismo napoletano, Celentano, a giugno del 1854, si reca a Roma dove entra in contatto con Overbeck e i pittori nazareni.
    Nel 1855 Celentano decide di accompagnare Morelli a Firenze dove ebbe modo di frequentare il Caffè Michelangelo, cominciando ad interessarsi alla poetica del “vero”, senza tuttavia rinnegare il bagaglio dell’Accademia: la prospettiva,
    lo studio delle luci, l’uso di sfondi di paesaggio all’aperto e la cura filologica delle ricostruzioni d’epoca. Nel 1856 in Lombardia e nel Veneto studiò i coloristi del Cinquecento e conobbe Stefano Ussi a Padova e i fratelli Induno a Milano.
    Bernardo Celentano visse la sua breve vita di ventotto anni nella fatica di una ricerca impossibile: metter d’accordo gli insegnamenti dell’accademia neoclassica con i nuovi ideali dell’espressività romantica e della verità naturalistica.
    Morì improvvisamente, sembra, per emorragia cerebrale; una morte simbolica, si direbbe, quasi che il corpo non abbia retto allo sforzo assurdo di conciliare l’inconciliabile. Nel 1857 Celentano ritorna a Roma per continuare il Cellini iniziato l’anno precedente e non ancora concluso poiché il pittore, nell’esecuzione di un quadro impiegava un’enorme quantità di tempo per accertare la realtà storica della scena da rappresentare per rintracciare tutti gli elementi che ne
    permettessero un’esattissima ricostruzione, e soffermarsi a leggere la descrizione dei caratteri che pensa di attribuire ai
    personaggi. Nella preparazione del quadro, infatti, Celentano non si preoccupa ancora della fedele rappresentazione dei costumi e dei luoghi, ma soprattutto dell’azione, del contrasto dinamico delle masse e dei singoli atteggiamenti, e
    butta giù linee spezzate e divergenti, imposta la composizione a grandi zone d’ombra e di luce. Il Celentano usava fare innumerevoli bozze e disegni preparatori per i suoi quadri, a penna e a matita. Quelli più colorati divennero invece veri
    e propri bozzetti (la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ne possiede una raccolta di settecentocinquanta, donati dalla famiglia nel 1892). Il nostro bozzetto Il sacco di Roma (tra l’altro mai portato a compimento), che Celentano esegue su consiglio dell’architetto napoletano ma risiedente a Roma, Antonio Cipolla, si riallaccia a due disegni preparatori oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (Cit. M. Biancale, Celentano, tav. XXVIII) ed è ancora spoglio di quel dettaglio dell’apparato teatrale di cui il Celentano credeva poi indispensabile rivestire il quadro finito ma di cui già se ne possono cogliere gli indirizzi, ancorché il carattere proprio di “appunto” richieda una larghezza di pennellata, rapidità di visione d’insieme e sommarietà di segno. Caratteristiche che però ci permettono di gustare le qualità dell’artista: la sua prontezza di mano, la capacità di cogliere un gesto, di fermare un atteggiamento, l’abilità nel giovarsi del gioco dei
    contrasti della luce e dell’ombra per creare il movimento di un’azione.
    Stima minima €2000
    Stima massima €4000
  • Gaeta Enrico(Castellamare di Stabia 1840 - 1887) Al lavatoio olio su tela, cm 52x39 firmato in basso a sinistra: E. Gaeta Provenienza: eredi dell'artista ; coll. privata,Napoli Esposizioni: Napoli,Associazione “Circolo ArtisticoPolitecnico”, 03 - 14 Maggio 2014 Bibliografia:E. Campana, Un pittore dell'Ottocento, in "Emporium" , vol. LXXX, n° 475,Istituto Italiano di arti grafiche, Bergamo, luglio 1934, XII, p. 54; Enrico Gaeta a cura di Rosario Caputo , Ed. Vincent Napoli 2014, tav 6,pag. 25
    La comprensione dell’arte di Enrico Gaeta non può che partire dal suo paese d’origine, Castellammare di Stabia,
    poiché accadde probabilmente che proprio per la visione di quei meravigliosi paesaggi l’artista si prefisse fin da piccolo
    l’obiettivo di dedicarsi con tutto se stesso alla pittura; egli si trasferì pertanto a Napoli nel 1857 per iscriversi al Real
    Istituto di Belle Arti, dove seguì gli insegnamenti di Mancinelli e Smargiassi per dedicarsi alla pittura di paesaggio.
    La poetica di Gaeta fu sempre all’insegna della scrupolosa trasposizione di quanto gli si presentasse davanti agli occhi,
    in contrapposizione alle tendenze più accademiche del tempo. Se si vuole rintracciare in lui un qualche cambiamento bisogna rivolgersi magari al modo in cui riportò via via sulla tela gli spettacoli della natura che l’incantavano, prima
    seguendo lo stile di Giacinto Gigante (che del nostro fu maestro e amico), poi orientandosi invece verso i dittami di Domenico Morelli, ponendo cioè maggior attenzione al perfetto equilibrio tra disegno e colore nella composizione dei
    dipinti. Dalla seconda metà del 1860 Gaeta trovò poi un nuovo mentore nella persona di Marco De Gregorio, entrando dunque dapprima nel circolo degli scolari di Resina per poi avvicinarsi ai modi dei primi macchiaioli toscani.
    Gaeta fu socio della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli dal 1868, avendo già preso parte agli eventi espositivi da questa organizzati fin dal 1864, e continuò a partecipare annualmente alle mostre locali fino alla fine dei suoi giorni.
    Intensa fu inoltre la sua attività nelle esposizioni nazionali, tra le quali l’artista riscosse grande successo a Torino nel 1884 e tre anni dopo a Venezia.
    Quella di Venezia fu l’ultima rassegna cui Gaeta prese parte: da poco tornato in terra natia egli fu assalito da due uomini per motivi d’onore (un tradimento presunto ma mai verificatosi effettivamente) e morì per le gravi ferite riportate. La produzione relativamente esigua dell’artista dunque si ritrova oggi principalmente nelle collezioni pubbliche e private dell’Italia meridionale, ma è certa anche una sua parziale circolazione nei mercati stranieri: opere di Gaeta apparvero del resto quand’egli era ancora in vita alle celebri Esposizioni Universali di Parigi nel 1867 e nel 1878 e di Vienna nel 1873, confermando la fama dell’autore anche sulla scena artistica internazionale.
    Proprio negli anni ’70 sorse a Stabia l’educandato di Villa Starace, e Gaeta vi dedicò più opere: non più tuttavia esclusivamente esterni, paesaggi, poiché ormai l’artista aveva cominciato anche a penetrare negli edifici, ad esplorarli,
    a ritrarli nei loro mattoni screpolati, gli stessi mattoni che compongono la stretta architettura riportata nell’opera proposta, e anzi essi qui si offrono nel punto di fuga centrale, aperto ed illuminato dal sole, ad accogliere quei muschi di
    cui i molti toni di verde costituirono sempre una cifra caratteristica del Gaeta, declinati secondo molteplici possibilità al variare della luce naturale. La natura delle cose viene rispettosamente restituita, senza alcun tentativo di sovrapporsi ad
    essa, pure nella giovane lavandaia, intenta nel proprio lavoro, che anima il dipinto non dissimilmente da altre opere del Gaeta, quali Lavandaia in cortile e Palazzo dello Stallone: non è presente cioè alcun cenno patetico o compassionevole, se non magari quella vaga dolcezza che traspare nell’intera produzione dell’autore e che fu sempre propria del suo animo sensibile.
    Stima minima €7000
    Stima massima €13000
  • Palizzi Francesco Paolo (Vasto, CH 1825 - Napoli 1871) Natura morta olio su tela cm 106,5x60,5 firmato in basso a sinistra: Franz Paul PalizziProvenienza: coll. privata, Parigi; coll. privata, Napoli
    Penultimo delle “nove muse” (noto soprannome con cui era definito insieme ai suoi fratelli, tutti più o meno versati nella arti) di Casa Palizzi, Francesco Paolo giunse a Napoli dalla nativa Vasto nel 1845 per iscriversi al Real Istituto di Belle Arti; qui fu dapprima allievo di Camillo Guerra con l’intenzione di diventare pittore di scene storiche,
    venendo dunque avviato dal proprio mentore a quel convenzionalismo accademico tipico dell’epoca, poi decise di seguire invece gli insegnamenti di Gennaro Guglielmi (artista in cui confluivano tanto la tradizione locale che le nuove spinte naturalistiche) orientandosi verso la natura morta. Sulla scia di questo nuovo interesse Francesco Paolo studiò attentamente i grandi maestri della pittura napoletana di genere del Seicento, come Recco e Ruoppolo, ma fu attirato soprattutto dalle composizioni più semplici, ridotte a pochi elementi, di un Luca Forte o del settecentesco Giacomo
    Nani, entrambi artisti memori della più ortodossa tradizione caravaggesca all’insegna del luminismo.
    Negli anni di formazione fu innegabile (come ovvia) tuttavia anche l’influenza dei più affermati fratelli maggiori di Francesco Paolo: Filippo prima, quindi (e soprattutto) Nicola, il quale trasmise al nostro quella pittura materica e corposa, a larghe pennellate strutturanti, che fu alla base dell’ormai riconosciuta (grazie specialmente agli studi di
    Michele Biancale e Raffaello Causa) innovazione che Francesco Paolo seppe apportare al genere tradizionale della natura morta; non mancò infine l’esempio di Giuseppe Palizzi, raggiunto a Parigi dal fratello minore nel 1857.
    L’immersione nel clima della Ville Lumière non poteva lasciare indenne la pittura di Francesco Paolo: la pennellata si fece più rapida, il greve chiaroscuro andò illuminandosi, i colori divennero più vivi e brillanti; questa trasformazione
    fu con ogni probabilità causata dallo studio delle opere del celebre Chardin nonché dal contatto col giovane Manet, il quale pure in quel periodo andava recuperando la tradizione della natura morta francese: dobbiamo immaginare per
    lo meno una visita all’importante mostra tenuta dal pittore francese presso la galleria Martinet nel 1865, se nelle opere del giovane Palizzi ora presso il Banco di Napoli o la stessa Accademia di Belle Arti si ritrova una resa sintetica del tutto simile a quella di Manet (nello sviluppo poi di temi tipici dell’artista francese, come quelli delle ostriche e delle peonie) o addirittura vere e proprie citazioni, come il virtuosistico coltello in bilico sul margine del tavolo a definire prospetticamente lo spazio della rappresentazione.
    Se il soggiorno parigino fu costellato da molteplici partecipazioni ai Salon locali, fino a culminare nella presenza all’Esposizione Universale del 1867, Francesco Paolo non dimenticò mai di inviare i suoi lavori alle Mostre della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, di cui era socio fin dalla fondazione nel 1862. Nella città partenopea l’artista tornò poi effettivamente e definitivamente dopo alcune peripezie nel 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana; a Napoli s’ammalò e morì prematuramente solo un anno dopo.
    Avendo riportato nella sua città d’adozione solo poche opere (in gran parte donate nel 1898 da Filippo Palizzi all’Accademia locale) prima dell’improvvisa ed inaspettata dipartita, molta della produzione di Francesco Paolo è perduta tra i salotti dei collezionisti francesi o comunque internazionali. Proprio per questo la tela proposta risulta tanto più preziosa, in quanto costituisce un insperato ed importante recupero di un autore asceso (secondo il parere ormai unanime degli studiosi, come detto) all’Olimpo degli innovatori napoletani dell’Ottocento. Ancora più, quest’opera può
    considerarsi a ragione una summa di più temi cari all’autore e riscontrabili perciò nei suoi quadri ora musealizzati: c’è la bella pentola di rame col crostaceo vermiglio, un’accoppiata quasi senza pari nella produzione dell’artista, ripresa solamente dal Paiuolo con gamberi, molto simile (la tela, creduta perduta, è stata identificata solo di recente in una
    collezione privata); c’è la cacciagione, visibile più volte nella collezione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli ma qui declinata secondo la scelta inedita di due fagiani al posto delle più tradizionali pernici ed anatre, e ci sono infine i
    funghi (pure all’Accademia) con il coltello, quel succitato accento caratteristico di Palizzi ma ereditato dalla più grande pittura francese coeva.
    Stima minima €4500
    Stima massima €8500
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933) Bimbi nel bosco olio su tela rip su tela cm 55x72 firmato in basso a sinistra: Alceste Campriani Provenienza: Coll. privata, Napoli
    L’ esperienza artistica di Campriani ebbe inizio nel 1862, anno del suo arrivo a Napoli dopo l’esilio della sua famiglia dalla papalina Umbria a causa degli ideali libertari del padre. Nel già garibaldino capoluogo partenopeo il giovane
    Alceste, tendenzialmente non meno ribelle del suo genitore, si rivelò inadatto agli studi intellettuali tradizionali e fu perciò iscritto all’Istituto di Belle Arti, dove ebbe per compagni personaggi di spicco quali Gemito, D’Orsi, Mancini,
    De Nittis.
    Studente poco incline all’accademismo imperante dell’epoca, Campriani mostrò ben presto simpatie per il naturalismo palizziano, avvicinandosi all’allora nascente gruppo di Resina ma non legandovisi ufficialmente (sebbene un’opera quale
    Capodimonte del 1865 mostrasse inequivocabilmente già la sua propensione ad una rappresentazione luministica dello spazio), non prima almeno del termine degli studi ufficiali conseguito nel 1869 (e dopo anche un soggiorno fiorentino in cui l’artista entrò in contatto con i macchiaioli ed in particolare con Signorini).
    Non è proprio chiaro il motivo per il quale Campriani pare avesse deciso poco dopo il suo diploma di abbandonare la pittura per dedicarsi al commercio, tuttavia è certo che allora si rivelò fondamentale il sodalizio con De Nittis, il quale
    tornando a Napoli da uno dei suoi soggiorni parigini rimase tanto impressionato dai risultati raggiunti all’amico che lo convinse a seguirlo nella Ville Lumière per presentarlo al celebre mercante d’arte Goupil. L’incontro fu davvero felice, se
    il noto negoziante richiese l’esclusiva di tutti i lavori dell’artista per ben quattordici anni. Mentre però è nota ed evidente l’influenza del raffinato ed elegante ambiente cittadino sulla produzione di De Nittis, Campriani rimase sempre fedele a
    se stesso e a quel paesaggismo bucolico che si era impresso nella sua sensibilità artistica sin dai primi tentativi pittorici, esaltato dalle teorie degli scolari porticesi. Tale anzi fu la nostalgia della sua terra e di quelle vedute che frequenti furono i viaggi in Italia, fino ad un ritorno definitivo a seguito della cessione del contratto con Goupil nel 1884. Rimaneva il grande successo internazionale ottenuto dall’artista, i cui quadri erano in bella mostra tanto nelle esposizioni di tutta Europa che nei salotti dei più nobili estimatori d’arte dell’epoca.
    Agli ultimi anni parigini o a quelli subito successivi in Italia (quest’ultimi costellati di partecipazioni alle più importanti
    esposizioni nazionali) deve forse risalire la tela proposta, raffigurante con ogni probabilità una veduta campestre diCapri (le cui marine si ripresentano spesso nella produzione di Campriani dell’epoca), con i caratteristici mandorli in
    fiore pure protagonisti di altre opere dell’artista e con la coppia di popolani intenti nel tradizionale intonare musica pastorale suonando due siringhe; soggetto quasi identico (ma assai semplificato) poteva osservarsi in una Pastorella che suona la siringa, documentata fotograficamente ma ormai di ignota ubicazione. La semplicità formale caratteristica dell’autore si combina (come in quasi tutta la sua produzione) con la costante attenzione che egli sempre volse alla luce ed i suoi effetti, non esente qui, nell’illuminazione frontale del pieno mezzogiorno che quasi cancella le zone d’ombra, dalle influenze del Fortuny, che affascinò evidentemente Campriani (come del resto l’intero gruppo di Resina) durante il soggiorno a Portici negli anni Settanta del secolo; lo spettro cromatico è particolarmente ricco, forse più di molte
    altre tele dell’autore e certamente al livello dei suoi capolavori, con l’ampia gamma dei verdi interrotta dalle molteplici variazioni di tono dell’azzurro, del marrone, del rosa che in particolare screzia meravigliosamente il bianco dei fiori di mandorlo. Si può dunque dire in definitiva che, se c’è tutta una produzione (quella più giovanile) di Campriani dedicata all’avida analisi della realtà ed alla sua resa oggettiva nell’opera d’arte, qui la lezione palizziana è andata
    smorzandosi e raffinandosi, nell’intento di comprendere più poeticamente il paesaggio e di rappresentarne anche il sentimento, l’invisibile, poiché esso, adoperando una felice espressione del critico del tempo Vittorio Pica, «non deve
    parlare soltanto agli occhi, ma anche all’anima di chi lo guarda».
    Stima minima €9000
    Stima massima €14000
  • Mancini Antonio (Roma 1852 - 1930 ) Il ritratto della Sig.Ines Pesaro olio su tela cm 99x73,5 firmato, iscritto e datato in basso a sinistra: Alla Sig. Ines Pesaro A. Mancini Roma luglio 1921

    Provenienza: Coll Pesaro, Mailno; coll. privata, Napoli

    Esposizioni: Arte Italiana Contemporanea, Milano, Galleria Pesaro, Ottobre – Novembre 1921; Mostra delle opere di Antonio Mancini. Onoranze Nazionali sotto l’Alto Patronato di S.M. il Re ela Presidenza di S.E. Mussolini, Roma, Palazzo dell’Augusteo, 1927

    Bibliografia: Arte Italiana Contemporanea (Milano, Galleria Pesaro, esposizione Ottobre-Novembre 1921), catalogo con prefazione di U. Ojetti e notebiografiche di V. Bucci, Alfieri & Lacroix, Milano, 1921, p. 106; Mostra delle opere di Antonio Mancini (Roma, Palazzo dell’Augusteo, 1927), catalogo, Arti Grafiche F.lli Palombi, Roma, 1927, p. 15; OTTOCENTO Catalogo dell'arteItaliana dell'Ottocento , Ed. Metamorfosi Milano2010, pag. 348; D. Di Giacomo, Antonio Mancini: la luce e il colore, Ianieri Editore, Pescara, 2015, tav. XCIV, p. 140
    Stima minima €18000
    Stima massima €25000
  • Toma Gioacchino (Galatina, LE 1836 - Napoli 1891) Gentildonna in salotto olio su tela, cm 30x18,5 firmato e datato in basso a sinistra: G. Toma 1862 Provenienza: Coll. privata, Napoli
    Gioacchino Toma, rimasto prestissimo orfano di padre e di madre, trascurato e vessato dai parenti, crebbe solo, selvatico, senza maestri, senza amore, maturando nell’anima un’ideale tenerezza. Raccolto nell’Ospizio dei poveri di Giovinazzo,
    ne fuggì dopo avere percosso un compagno che l’offendeva. Riparando presso i parenti a Galatina, lo attendevano delusioni più tristi. Fuggito anche di lì, fece il servo a Napoli presso un vecchio pittore, patì i soprusi d’un imbrattatele
    che intendeva sfruttarlo, e si trovò nuovamente in strada. Arrestato nel 1857 con la falsa accusa di cospirazione, la prigione lo inasprì contro gli oppressori e gli fece sentire più forte l’amore per la libertà. In seguito Gioacchino Toma fu inviato al domicilio coatto a Piedimonte d’Alife, in provincia di Caserta. In quel luogo, grazie anche alle numerose richieste, dipinse una serie di ritratti della società alifana, benvoluto sia dalle famiglie Caso e Dal Giudice, avversi ai Borbone, che dai Gaetani di Laurenzana, vicini ai regnanti. Grazie proprio all’aiuto del duca di Laurenzana, Toma
    riuscì a tornare a Napoli nel 1859 e qui, iscrittosi al Real Istituto di Belle Arti sotto Giuseppe Mancinelli, esordirà alla Mostra borbonica di quell’anno presentando Erminia che scrive il nome di Tancredi sull’albero. La sua attività
    di ritrattista, seppur non considerevole, non si limitò al periodo alifano, quando si dedicò principalmente a ritrarre personalità del luogo in modo austero e raffinato, ma continuò verso la fine della carriera quando, forse spinto da
    sentimenti personali, raffigurò i familiari più stretti. Il quadro Gentildonna in salotto è datato 1862 ed è di pochi anni successivo al quadro di Domenico Morelli La barca della vita eseguito nel 1859 e verso il quale, il Toma rende un doveroso omaggio replicandolo sulle pareti alle spalle della gentildonna.
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Postiglione Luca (Napoli 1876 - 1936)
    Popolana
    olio su tela, cm 104x64
    firmato in basso a destra: L. Postiglione Provenienza: Coll. privata, Roma
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Pratella Attilio (Lugo di Romagna, RA 1856 - Napoli 1949)
    Barche nel porto di Napoli
    olio su tavola, cm 35x23
    firmato in basso a destra: A. Pratella
    Provenienza: Coll. privata, Napoli
    Stima minima €4000
    Stima massima €7000
  • Balestrieri Lionello (Cetona SI, 1872 - 1958) Beethoven olio su tela cm 87x187 firmato, datato e iscritto in basso a destra: L. Balestrieri Paris 1900 Provenienza: Coll. privata,Milano; Coll. privata, Roma
    Nato da un’umile coppia senese, Lionello Balestrieri fu costretto assai presto a lavorare come decoratore per potersi permettere gli studi di Belle Arti, prima a Roma poi a Napoli; qui fu dapprima seguito da Gioacchino Toma, poi in un secondo momento seguì con grande entusiasmo le novità introdotte nel Real Istituto sotto la direzione di Filippo
    Palizzi e Domenico Morelli, quest’ultimo poi maestro venerato dal Balestrieri per l’intera sua vita.
    Appena ventenne Lionello si trasferì a Parigi, attirato dal fascino e dalla fama della Ville Lumière come tanti altri suoi contemporanei. La vita nella soffitta di un palazzo popolare di Montmartre fu certamente dura e difficile, seppure
    allietata dalla presenza dell’amico Giuseppe Vannicola, poeta e violinista romano col quale il pittore divideva l’alloggio:fu costui il tipico bohémien, dedito ad una vita “maledetta” all’insegna degli eccessi e destinata ad una tragica e precoce
    fine circa venti anni dopo; il suo evidente carisma influenzò tuttavia fortemente il Balestrieri, che negli anni parigini produsse una folta serie di opere accomunate dal tema musicale, come La morte di Mimì, Chopin, Notturno, Manon;
    su tutte queste, tuttavia, si impose il Beethoven realizzato dopo molti ripensamenti nel 1899 ed esposto per la prima volta all’Universale di Parigi del 1900: premiato con la medaglia d’oro, fu nuovamente in mostra alla Biennale veneziana
    del 1901 e là acquistato dal Museo Revoltella di Trieste, ove tuttora si trova.
    In vero l’inatteso successo della grossa tela fu tale che si moltiplicarono rapidamente le richieste e le conseguenti realizzazioni di copie, tanto che lo stesso Lionello, versato come in pittura anche nella grafica, preferì dedicarsi ben presto ad incisioni, acqueforti ed acquetinte per velocizzare i processi di produzione ed aumentare i guadagni.
    Forse sarebbe preferibile addirittura ammettere che in definitiva la fama dell’opera fu anche troppa, e finì per oscurare quella del suo stesso autore, se questi poi, nonostante le successive produzioni impressionista (Lavandaie sulla Senna) e
    macchiaiola (Signora che ricama in giardino), verista (Mademoiselle Chiffon) e finanche futurista (Sensazioni musicali, Penetrazione, Materia e spirito), finì per essere ricordato solo e soltanto per il suo giovanile Beethoven. L’ opera proposta dunque è innanzitutto una versione successiva al celebratissimo originale, chiaramente; tuttavia il
    supporto in tela la retrodata rispetto ai numerosi multipli di minor valore, inoltre essa reca la firma di Balestrieri che è assente nella maggior parte delle copie (quelle apparse sul mercato, almeno) ed è di tutte queste più grande. Il soggetto
    è vagamente autobiografico, presentando in primo piano sulla sinistra lo stesso Balestrieri (il quale realizzò in vita numerosi autoritratti) intento ad ascoltare l’amico Vannicola che suona con l’accompagnamento d’un pianoforte la
    celebre Sonata Op. 47 “a Kreutzer” di Beethoven (il musicista tedesco è in realtà presente nell’opera come inquietante presenza fantasmatica mediante una riproduzione della sua maschera funeraria, appesa non a caso in alto e quasi al centro della composizione); gli altri personaggi, una somma di solitudini più che una vera compagnia, pure sembrano
    ascoltare la virtuosa esecuzione musicale, oppure soffrono l’alienazione causata dagli alcolici e dal consumo d’assenzio (particolarmente suggestiva è la figura femminile dallo sguardo perso nel vuoto che s’accompagna all’artista). Gli stessi
    vividi colori della tavolozza si fanno acidi (più qui che nell’originale, dove si preferirono evidentemente toni cupi che meglio rispecchiassero la fredda miseria della vita bohémienne), come filtrati dai fumi delle droghe, e danno all’interno
    l’aspetto di quei café parigini tanto cari a Toulouse Lautrec, oppure avvicinano l’opera ai celebri “bevitori d’assenzio” di Degas e Picasso.
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Rossano Federico (Napoli 1835 - 1912) Campagna francese olio su tela, cm 30,5x44,5 firmato in basso a sinistra: Rossano Proveninza: coll. privata, Bologna; Coll. privata, Napoli
    Iscritto inizialmente alla Scuola di architettura del Real Istituto di Belle Arti napoletano dal padre, rigido militare a riposo, Federico Rossano prese presto la decisione di frequentare piuttosto i corsi di pittura, suscitando l’indignazione
    familiare che, come era tipico tra i borghesi (allora come oggi), teneva in scarsa considerazione chiunque si dedicasse a mestieri che non garantissero una certa e rapida remunerazione. La delicata e difficile condizione tra le mura
    domestiche non poté non influire ovviamente anche sulla produzione artistica del giovane autore, che preferì per una prima fase (dalle forti sfumature poetiche) ritrarre paesaggi malinconici, boschi isolati, paludi, rovine, prediligendo i Campi Flegrei.
    Nel 1858 Rossano abbandonò gli studi accademici per trasferirsi a Portici dall’amico Marco de Gregorio: fu la svolta che diede i natali alla celeberrima Scuola di Resina, di cui il nostro fu tra i principali rappresentanti. Le numerose opere
    realizzate in circa un ventennio circolarono tra svariate esposizioni italiane (comparendo più spesso ovviamente agli eventi organizzati dalla neonata Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, di cui Rossano fu socio quasi da subito), conquistando lodi di artisti affermati quali il Gigante e Michele Tedesco, nonché finendo spesso nelle collezioni reali.
    Il passo verso il successo internazionale fu breve: all’Universale di Vienna del 1873 fu assegnata una medaglia a Fiera dei buoi a Capodichino, e lo stesso soggetto esposto al Salon parigino del 1876 aprì a Rossano le porte del raffinato ambiente culturale ed artistico della Ville lumiére. L’artista decise infatti di raggiungere l’anno successivo Giuseppe
    De Nittis nella capitale francese, entrando così in contatto con intellettuali e pittori quali Boldini e Dégas; ancora più importante fu però la conoscenza del primo Impressionismo, col quale Rossano scoprì d’avere di fatto condiviso i principi tecnici ed estetici praticamente da sempre: era tipico di lui infatti fissare i motivi dei suoi dipinti con grande
    immediatezza, per poi concluderli rapidamente e senza sottoporli a successivi ritocchi.
    Come per tanti altri artisti coevi trasferitisi all’estero il ricordo della terra natia rimase tuttavia sempre forte, e Rossano inviò spesso proprie opere alle esposizioni italiane, fino a tornare definitivamente in patria nel 1892, calorosamente accolto dai vecchi amici di gioventù. In un mercato locale profondamente cambiato il nostro decise però di non tentare un vero e proprio rientro (comunque mai abbandonando del tutto l’attività pittorica), dedicandosi piuttosto
    all’insegnamento di quanto appreso nel corso della sua florida carriera agli allievi delle Belle Arti e della scuola Suor Orsola Benincasa.
    Nel soggiorno francese comunque la pittura di Rossano s’era fatta più piacevole (in nome della maggiore serenità, specialmente economica, conquistata dall’autore, allora esposto con costanza nelle vetrine del celebre mercante Goupil),
    come subito dimostra del resto l’opera proposta. A Parigi l’artista aggiornò di fatto ai gusti estetici del momento quello spirito che aveva animato (e ancora animava) gli scolari di Barbizon, rifugiatisi nei semplici panorami agresti e silvani per evitare le classicistiche composizioni storiche e la tragicità dei romantici,traendo poi dalla tradizione olandesei tipici contrasti tra i toni scuri delle forme in primo piano e la vibrante luminosità dei cieli azzurri; similmente ai Fiamminghi del passato Rossano del resto già caratterizzava le sue opere fin dagli esordi con lo sviluppo di piani
    degradanti all’orizzonte, qui ridotti ad uno solo per far posto alle più numerose ed ampie nuvole perlacee. Anche la figura umana, a lungo semplice variatio tonale nella prima produzione dell’artista, divenne allora parte integrante del paesaggio: si trattò sempre di umili lavoratori, spesso (come in questo caso) contadini, di quelli che piacevano a
    Jean-Francois Millet, intenti nei propri compiti quotidiani, tema questo che alla fine accomunava Rossano anche al più cosmopolita amico De Nittis. Mai condividendo di questi la mondanità, tuttavia, i soggetti ritratti nelle vedute di Rossano erano sempre osservati in lontananza, dal margine, come se l’artista ancora percepisse in qualche modo la
    sua esclusione dalla comune vita sociale, ed in questo non può non rintracciarsi ancora quella vena malinconica chesempre lo perseguitò fin dalla sua prima gioventù.
    Stima minima €16000
    Stima massima €25000
  • La Volpe Alessandro (Lucera, FG 1820 - Roma 1887) Panorama di Napoli con pescatori
    olio su tela, cm 74,5x106
    firmato in basso a sinistra: A. La Volpe
    Provenienza: Coll. privata, Napoli
    Stima minima €8000
    Stima massima €12000
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888)
    Al pascolo
    olio su tela, cm 60x53
    firmato in basso a destra: Palizzi
    Provenienza: Coll privata, Roma
    Stima minima €4500
    Stima massima €7500
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