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  • Ragione Raffaele (Napoli 1851 - 1925)
    Cortile rustico
    olio su tavola, cm 20x34
    firmato in basso a sinistra: R. Ragione
    Stima minima €2800
    Stima massima €3800
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888)
    Ritorno dai campi
    olio su tela, cm 35x52
    firmato in basso a destra: Palizzi
    a tergo cartiglio: Esposizione VI Quadriennale Nazionale d'Arte di Roma, Roma 18 Dicembre 1951 - 15 Maggio 1952; cartiglio Esposizione L'Arte nella vita del Mezzogiorno d'Italia, Roma 1953

    Provenienza: Coll. Armiero, Napoli; Coll. privata, Napoli; Coll. privata, Bologna
    Esposizioni: Roma,1951-52; Roma, 1953
    Bibliografia: VI Quadriennale Nazionale d'Arte di Roma, catalogo dell'esposizione, De Luca Editore, Roma, 1951; Mostra dell'Arte nella vita del Mezzogiorno d'Italia, catalogo della mostra Roma Marzo-Maggio 1953, De Luca Editore, Roma, 1953, p. 45


    Quando Giuseppe Palizzi (il maggiore, tra gli artisti della nota famiglia) posò per la prima volta il proprio piede in
    Francia, tra il 1844 ed il ’45, egli aveva già rotto ogni legame (ufficiale, per lo meno) con la vita artistica di Napoli,
    ambiente dove il giovane (ma nemmeno troppo, considerando la sua ammissione nel 1835 al Real Istituto di Belle
    Arti con dispensa sull’età) artista abruzzese oscillò sempre fra il paesaggismo dell’ultima Scuola di Posillipo, allora
    ormai artefice più che altro di bei manufatti artistici per raffinati turisti, e quello nascente storico-romantico, reagendo
    dunque rispettivamente agli insegnamenti accademici prima di Anton Sminck van Pitloo, poi di Gabriele Smargiassi.
    Fu tuttavia il progressivo tendersi dei rapporti proprio con quest’ultimo artista, non solo per questioni estetiche ma
    anche politiche, a spingere in via definitiva il Palizzi al proprio trasferimento.
    Parigi era allora, in quanto centro culturale del tempo, notoriamente meta prediletta di artisti da tutto le parti del globo,
    tanto più per coloro i quali, come Giuseppe, rincorrevano la bella vita ed i gusti più à la page. Il nostro tuttavia prese
    la felice decisione di trasferirsi in via definitiva a Passy (allora non ancora parte della capitale), nei pressi della foresta
    di Fontainebleau, ove erano soliti incontrarsi al tempo i membri della scuola di Barbizon (spostatisi da Marlotte): la
    lunga e solida amicizia che nacque dunque fra costoro ed il Palizzi dipese allora certamente da motivazioni personali e
    ancora una volta politiche (i barbizonniers furono quasi tutti carbonari, così come i membri della famiglia dell’artista
    abruzzese), ma fu innanzitutto per la straordinariamente simile ricerca estetica, cioè per l’attento studio del vero
    naturale, che Giuseppe riuscì a recepire il messaggio di Rousseau, Daubigny, Charles Dupré, ed a farlo proprio.
    Se la definitiva adesione alla scuola di Barbizon si concretizzò con “L’accampamento degli zingari”, notato dai critici
    del Salon parigino del 1848 (il primo dei tanti cui il Palizzi prese parte) per gli straordinari effetti del chiaroscuro, più
    tarda deve essere evidentemente l’opera qui in esame. L’impianto chiaroscurale, ben visibile dunque tanto nella seconda
    che nella prima opera, Giuseppe in effetti lo ereditò da memorie antiche, dal «naturalismo nordico» di cui ha parlato
    anni fa Roberto Longhi, insomma dalla pittura olandese che storicamente riscontrò particolare e singolare successo
    presso il gusto dei Napoletani (di più tarda influenza partenopea, in particolare di scuola posillipiana, fu pure del resto
    la costante tendenza palizziana all’idillio, al trasfigurare cioè romanticamente la semplice vita campestre, come può
    evincersi qui dalla serena atmosfera in cui stanno sospesi il pastorello con le sue capre); alle calde intensità olandesi,
    pervase da tinte rugginose, il nostro tuttavia oppose – anche e chiaramente nella tela proposta – la «maggior densità di
    luci fredde e di ombre vellutate e profonde, giocando fluidamente coi verdi, coi bruni e col nero, a pennellate larghe e
    costruttive» (Alfredo Schettini), queste ultime senza dubbio mutuate dai sodali francesi.
    Stima minima €6000
    Stima massima €9000
  • Mancini Francesco (Napoli 1830 - 1905)
    In riva al fiume
    olio su tela, cm 50x87
    firmato e datato in basso a sinistra: F. Mancini 67

    Bibliografia: OTTOCENTO Catalogo dell'arte Italiana dell'Ottocento n. 40, Ed. Metamorfosi Milano 2011, pag. 349 in b/n

    Non sarebbe errato considerare Francesco Mancini quale un predestinato lungo la scia della grande tradizione paesistica
    di scuola napoletana, quella inaugurata da van Pitloo e dal Gigante: il Mancini infatti già andava rinnovando in senso
    naturalistico l’opera del suo primo maestro, Gabriele Smargiassi, tralasciando cioè i quadri di composizione (e dunque
    di invenzione) in favore di una rappresentazione di paesaggi solidamente sorretta da una attenta visione del dato reale,
    quando l’incontro diretto col geniale “rivoluzionario” Filippo Palizzi, e poi con i vari pittori di scuola calabrese, non
    fece che confermare e rafforzare le sue precoci ma assai moderne intuizioni; da allora si disse opportunamente di
    Francesco che egli non dipinse «un albero, una casetta o tutt’altro senza averlo prima studiato dal vero».
    Se dunque nell’opera qui proposta non manca un evidente afflato poetico (che potremmo pure definire romantico,
    con un certo azzardo), un’impronta cioè delle prime influenze di Smargiassi sull’arte del Mancini, è senza dubbio
    alla temperie più moderna dell’artista che dobbiamo ascrivere la sua tela: lo spazio ambientalistico infatti richiama
    appieno i dittami della riforma palizziana, adoperando cioè per lo sfondo una macchia sintetica ed impressionistica,
    non priva tuttavia di alcune sottigliezze artistiche, mentre appunto emerge con evidente forza sul primo piano una
    straordinaria cura nella resa di ogni più minimo dettaglio naturalistico, dalle più disordinate masse di arbusti ai singoli
    e fragili fili d’erba palustre, affinché risulti il più fedelmente possibile restituita la percezione visiva del reale; ancora
    più sorprendente è l’effetto specchiante del corso d’acqua, volutamente calmo (nonostante le logiche increspature che,
    causate dalla elementare imbarcazione, dovrebbero agitarlo) per permettere all’autore di far mostra di tutto il suo
    virtuosismo (contravvenendo, con giocosa immodestia, all’intransigente rigore proprio invece del maestro Palizzi).
    In questo idillico ambiente, fra i suoi colori (e quasi potremmo dire profumi), pure la figura umana, che occupando
    perfettamente il centro della composizione dovrebbe attirare a sé gli sguardi dei vari spettatori, finisce quasi per
    scomparire alla vista, non va cioè a disturbare l’immersiva esperienza polisensoriale del paesaggio che si staglia
    sterminato e selvaggio sotto i nostri occhi.

    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Mancini Antonio (Roma 1852 - 1930)
    Ritratto
    olio su tela, cm 54x35,5
    firmato in basso a sinistra: A. Mancini
    a tergo ritratto femminile

    Opera registrata presso l'Archivio Mancini con il codice n. 95 (8) 0820 AV 2009
    Bibliografia: OTTOCENTO Catalogo dell'arte Italiana dell'Ottocento n. 36, Ed. Metamorfosi Milano 2007, pag. 329


    Non è poi così raro, tanto più fra le opere dell’Ottocento, incappare in una tela o magari una tavola lavorate su entrambe le
    superfici: col radicale mutamento in età contemporanea dei meccanismi sottostanti la creazione dell’opera d’arte, ovvero con
    la non più necessaria presenza del primo fra i due poli del tradizionale rapporto committenza-artisti, furono questi ultimi a
    dover spesso cercare di accaparrarsi qualche illustre protettore (e non più vice versa), dandosi alla spasmodica produzione
    di opere da presentare al più vasto pubblico possibile, in continuo via vai dentro e fuori i confini italici e generalmente (e
    conseguentemente) in assidua penuria di denaro, costretti dunque come è ovvio a riutilizzare sostegni già dipinti, o materiali
    già adoperati in qualche modo.
    La vicenda di Antonio Mancini costituisce a tal proposito un exemplum memorabile, lui che mancava costantemente di tele,
    tavole, colori con cui lavorare (cui provvedevano il Morelli, suo grande maestro, e vari amici, fra cui soprattutto Gemito e
    Fabron), lui che confessò all’amico (e suo discreto collezionista) Giuseppe Casciaro d’essere stato «un derubato cronico».
    In effetti un difetto non trascurabile del Mancini fu il non preoccuparsi troppo della vendita delle sue opere, cioè del suo
    vantaggio e dunque del suo sostentamento (finendo spesso come si è detto nelle mani di mercanti di poca importanza e
    vergognosamente avidi), tutto perso com’era nella ricerca della perfetta resa luministica attraverso i più vari modi di stendere
    gli impasti pittorici. L’opera qui proposta va appunto apprezzata alla luce (è il caso di dirlo) di questa indagine spasmodica,
    come prova tangibile cioè dell’evoluzione di estetica e stile cui Antonio Mancini andò incontro, insomma come testimonianza
    storico-artistica e non come semplice e banale caso di reimpiego.
    Sul recto dunque abbiamo un dipinto più probabilmente del periodo napoletano, quando Mancini si dedica prettamente ad
    opere di piccolo formato, spesso schizzate con sensibilità impressionistica ed adoperate come merce di scambio per pagare i
    propri creditori. Il fondo rafforzerebbe questa ipotesi, richiamando sia la foglia d’oro delle grandi tavole del passato di cui il
    Mancini andava nutrendosi avidamente di chiesa in chiesa durante gli anni della giovinezza (sotto suggerimento del Morelli),
    sia le soluzioni adottate in alcuni dipinti del tempo, quali il meraviglioso “Prevetariello” (1870, in collezione Rotondo e poi
    a Capodimonte); potrebbe confermare la datazione anche il soggetto rappresentato, se vi si vuole identificare a partire dalla
    caratteristica, folta chioma Luigi Gianchetti o Luigiello, modello d’elezione per il Mancini del primo periodo e protagonista di
    capolavori quali “Dopo il duello” del 1872 ed il grosso modo coevo “Scugnizzo col salvadanaio”.
    Più difficile invece risulta asserire se pure il verso ritragga il medesimo personaggio, vuoi per i lineamenti (almeno
    apparentemente) più duri e maturi, vuoi per l’abbigliamento visibilmente femminile (per cui si tratterebbe allora per lo meno
    di un caso di travestimento). La datazione più tarda (certamente al periodo romano) si baserebbe sostanzialmente sull’evidente
    traccia lasciata sulla tela dal reticolo di spaghi di cui abbiamo notizia Mancini si servì solo a partire dai tardi anni Ottanta del
    diciannovesimo secolo, al fine di ottenere una maggiore esattezza dell’impianto prospettico. Attorno a questa caratteristica
    quadrettatura il raggrumarsi della materia pittorica s’è definitivamente sostituito alle pennellate giovanili, quasi colando nella
    sua pesante densità al di fuori dello spazio della rappresentazione, sulla cui superficie il gioco dei chiaroscuri risulta così
    effettivamente concreto e tangibile, termine ultimo e maturo di una ricerca luministica e cromatica durata una vita intera.
    Stima minima €8000
    Stima massima €12000
  • Gigante Giacinto (Napoli 1806 - 1876)
    Cava dei Tirreni
    olio su tela, cm 39x60
    firmato in basso a destra: Gia Gigante


    Figlio d’arte, Giacinto Gigante, primogenito di otto figli (di cui quattro morirono prematuramente a gli altri divennero
    tutti pittori), prese il nome dal Diana, maestro in Accademia del padre Gaetano Gigante, e da quest’ultimo i primi
    rudimenti di pittura (nel secondo decennio dell’Ottocento). Furono tuttavia ben altri i suoi veri maestri: innanzitutto,
    e specialmente sul piano tecnico, il tedesco J.W. Hüber, dal quale insieme all’amico di sempre Achille Vianelli Giacinto
    apprese l’uso di acquerello, acquatinta e del cosiddetto “disegno a contorno”, tutte procedure che gli tornarono assai utili
    nel lavoro cui contemporaneamente il padre l’aveva spinto, presso il Reale Officio topografico (dove il giovane artista
    poté pure sperimentare la nascente litografia), esperienza dalla quale nascerà pure la “Carta topografica e idrografica di
    Napoli e dintorni”; in vero il Gigante si servì di lì a poco di tutto questo ampio bagaglio tecnico per intraprendere una
    attività piuttosto remunerativa di vendita di “souvenir iconografici “ ai numerosi turisti che di nuovo (dopo la parentesi
    della Repubblica napoletana del 1799 ) calpestavano la terra di Partenope sulle orme della mitica grecità.
    L’altro e forse ancora più importante mentore (nonché sincero amico) fu A.S. van Pitloo, frequentato sia prima che dopo
    il suo incarico come professore della cattedra di Paesaggio presso il Real Istituto di Belle Arti, ambiente che il Gigante
    invece rifuggì sempre, e con vanto: «io mi trovavo a non aver battuto la strada degli alunni dell’Istituto giacché studiavo
    sempre dal vero». Nell’attenzione appunto al vero Giacinto seguitava in vero un percorso di gusto tutto partenopeo
    già intrapreso da illustri artisti del passato, ma rinfrescò questo di nuova vita proprio grazie agli insegnamenti del
    Pitloo, intorno al quale s’era poi riunito un gruppo di pittori di formazione non accademica e pertanto denominato con
    disprezzo (dagli ambienti artistici ufficiali) “Scuola di Posillipo” a partire dal luogo in cui il gruppo stesso s’era stabilito
    (una scelta non casuale e rispondente certo a richieste commerciali - dei turisti borghesi che pure soggiornavano
    a Posillipo - non dissimili da quelle che già avevano messo in moto il Gigante); Pitloo e i suoi, fra cui ovviamente
    Gigante (che divenne in seguito protagonista della “Scuola”), ebbero il merito di rinnovare il genere del paesaggio
    mutando radicalmente il rapporto fra artista ed oggetto della sua visione, ora non più riportato freddamente sulla
    tela ma interpretato attraverso le emozioni sensoriali e spirituali di chi l’osserva: «si afferma insomma la personalità
    creatrice e, con essa, il lirismo» (A. Schettini).
    Sotto la guida di Pitloo Gigante eseguì il suo primo olio (“Lago Lucrino” del 1824), eppure queste tecnica non gli
    fu mai troppo congeniale, contando dunque relativamente poche prove nella ricchissima produzione dell’artista;
    considerando poi le molte opere perdute in collezioni private non solo italiche ma anche straniere (visto l’enorme
    successo che Giacinto ebbe ancora in vita all’estero), risulta tanto più eccezionale la presenza dell’opera qui proposta. È
    stato scritto in passato che gli olii del Gigante richiamassero un gusto pittorico tipicamente nordico nel rappresentare
    l’impressione del vero, e non c’è dubbio che Pitloo stesso fece da filtro tra l’ambiente napoletano e svariate tendenze
    d’oltralpe, in particolare la pittura di J. M. W. Turner; pertanto v’è spesso in Gigante come si diceva un certo afflato
    visionario, anche appena accennato, nell’attenuazione del dato naturale puramente documentario a favore di certe
    invenzioni coloristiche (sempre frutto di un’eccezionale sensibilità), e tuttavia parrebbe più opportuno ascrivere questa
    tela alle ricerche che impegnarono intorno alla metà del secolo l’artista soprattutto a Sorrento e si concentrarono
    particolarmente sullo studio delle variazioni cromatiche in natura, collegando così in qualche modo il percorso di
    Gigante a quello della scuola di Barbizon e dunque al grande movimento impressionista francese.
    Stima minima €25000
    Stima massima €35000
  • Rossano Federico (Napoli 1835 - 1912)
    Tramonto nella campagna francese
    olio su tela, cm 54,5x86
    firmato in basso a destra:Rossano
    a tergo cartiglio: Dott. Antonio Mazzotta

    Provenienza: Coll. A. Mazzotta, Milano; Coll. privata, Napoli; Galleria L'Oltreoceano, Napoli; Galleria Nuova Bianchi d'Espinosa, Napoli; Coll. privata, Bologna; Coll. privata, Napoli

    Esposizioni: Milano, 1954; Napoli, 1988

    Bibliografia: Il Paesaggio italiano - Artisti Italiani e Stranieri, cat. mostra Maggio-Giugno 1954 Arti graf. E. Gualdoni, Milano 1954, pag. 187; Galleria Nuova Bianchi d'Espinosa, Catalogo n.4, Ed. marzo 1988, Tav..42; G.L. Marini, Il valore dei dipinti dell'Ottocento e del primo Novecento, ed. XI, Torino 1993-94, tav. a colori p.472; M. Agnellini (a cura di), Ottocento Italiano. Opere e mercato di Pittori e Scultori, Milano 1995, p. 245; Ottocento Catalogo dell'Arte Italiana. Ottocento - Primo Novecento n.42, Milano 2013, pag.490


    Il dipinto Tramonto nella campagna francese è un’opera di grande suggestione che riporta la cifra tipica dei primi anni
    francesi di Federico Rossano, nella resa di una tela di grande potenza tecnica e sentimento. Si tratta di una campagna
    francese al termine di una dura giornata di lavoro, con una figura femminile che si avvia, forse, verso casa, dopo aver
    raccolto i propri pargoli, intenti a giocare accanto a dei covoni di grano. L’opera (spesso ripetuta con piccole varianti)
    è riferibile agli anni trascorsi in Francia fra il 1875 e il 1890. È tutta affidata a valori atmosferici quasi impalpabili,
    nella resa di sottili vibrazioni cromatiche e luministiche in particolari ore del giorno, come all’imbrunire o all’alba.
    Per lo studio di queste condizioni di luce, oltre che per l’impianto generale, il debito nei confronti della tradizione
    paesaggistica francese di ispirazione corottiana è molto evidente.
    Uno tra gli artisti francesi con il quale Rossano intrattenne un rapporto più frequente fu Camille Pissarro, con il quale
    si accompagnava frequentemente nelle peregrinazioni lungo i canali dell’Aisne o a Ville d’Avray, dalle cui atmosfere
    rinverdì il sentimentalismo della scuola di Barbizon. Il pittore e i barbizonier, dopo la morte di Camille Corot (1796-
    1875), raccolsero i frutti degli anni precedenti con continui successi nei vari Salons e nelle gallerie francesi più
    accreditate. Il loro naturalismo era scaturito da una reazione sia all’artificiosità del paesaggio storico-classicista, che ai
    toni melodrammatici dei pittori romantici. I barbizonnier si erano sforzati di trovare il semplice nei campi, nelle foreste
    o presso le rive dei fiumi piuttosto che ritrarre scene spettacolari e terrificanti. Attraverso una tendenza all’osservazione
    intima e contemplativa, questa aggregazione, lungi dall’operare una rottura col passato, trasse le sue radici dalla
    tradizione olandese dettagliando chiaramente i lavori per lo più con forme scure e staglianti contro la luce del cielo. Per
    tali pittori il realismo non significò registrare fugaci sensazioni visive di luce o di colore ma, piuttosto, fu una ricerca
    volta alla descrizione dei paesaggi attraverso una stretta familiarità con l’ambiente e ciò spiega il loro bisogno di vivere
    a stretto contatto con la natura. Questa corrente ricalcava, con perfetta simbiosi, le idee di Rossano che non amava
    proiettare le proprie emozioni ma, viceversa, ascoltava e riportava la particolare “voce” di ciascun paesaggio. Rossano
    con le sue nebbie vaporose, i paesaggi alberati, i corsi dei fiumi puntellati da alberi secolari e le sue magnetiche nuvole,
    captò l’attenzione dei francesi proponendosi con una spiritualità di tono che qualcuno volle paragonare all’ultimo
    Corot, con il quale, in verità, aveva molti punti in comune: il formato del quadro, la grande padronanza sulle gamme
    dei verdi, i cieli ricchi di atmosfere perlacee, il tono grigio-bruno predominante e, più in generale, una rivisitazione del
    paesaggio in chiave lirica.
    Stima minima €20000
    Stima massima €30000
  • Palizzi Filippo (Vasto,CH 1818 - Napoli 1899)
    Ritorno dai campi
    olio su tela cm 65,5x50
    firmato in basso a destra: Fil Palizzi
    a tergo antico cartiglio di esposizione


    Sebbene un po’ l’affetto e un po’ la grande stima riposta nel fratello maggiore Giuseppe condussero Filippo Palizzi ad
    attribuire proprio a quello il merito d’aver rinnovato la pittura di paesaggio nella Napoli dell’Ottocento, fu in vero e
    notoriamente il quintogenito della famiglia di artisti a cambiare profondamente certe tendenze artistiche del tempo,
    dando in (gran) parte origine a quella che, nella prima Esposizione Nazionale del 1861 a Firenze, sarà identificata come
    una nuova scuola napoletana (sebbene non fosse poi del tutto esatto il termine), tutta tesa allo studio del vero.
    È allora felice coincidenza ritrovare nell’opera proposta tutti gli elementi più caratteristici della svolta artistica data
    dal Palizzi all’arte del suo tempo. La rappresentazione animale innanzitutto, prima cifra del suo fare rivoluzionario,
    allorché già nel primo saggio accademico (“Vacche ritratte dal vero”, 1838) egli elevò «ad artistica nobiltà soggetti sino
    allora ritenuti inferiori» (Alfredo Schettini); nei primi tempi comunque egli probabilmente ricorse per la trascurata
    (come detto) animalistica più che altro a repertori di incisioni, tuttavia i successivi e lunghi studi dal vero (su tutti
    i costanti soggiorni a Cava dei Tirreni fin dal 1847) finirono per convincerlo della individualità (di «forma, colore,
    indole», usando parole sue) e quindi della dignità d’ogni creatura ferina d’esser rappresentata nel proprio ambiente, in
    modo cioè del tutto simile all’uomo (in effetti l’indagine palizziana sulla figura umana era allora già pervenuta ai suoi
    migliori risultati, se già avevano avuto pubblicazione le sue numerose illustrazioni a corredo del libro di De Boucard
    “Usi e costumi di Napoli e contorni”, tra 1853 e ’58). L’interesse generale per questi soggetti, comunque, potrebbe
    forse ascriversi al tempo trascorso in tenera età modellando figurine per il presepio di casa Palizzi, attività che dunque
    spiegherebbe anche quel realismo minuto, quell’arte quasi sempre di piccole proporzioni propria di Filippo. Quanto
    infine allo sfondo, sebbene non manchino note e straordinarie opere del Palizzi che non hanno altro protagonista che il
    paesaggio, si dovrebbe considerarlo nel nostro caso più che altro sussidiario alla fine realizzazione delle figure in primo
    piano; si badi tuttavia a mai confondersi con una fantomatica trascuratezza, pure avanzata erroneamente da alcuni
    critici: l’ambiente paesistico sempre offrì anzi a Filippo l’occasione di mostrare la sua personalissima concezione della
    pittura di macchia, all’insegna sì della «totalità», cioè dell’impressione di insieme, ma sempre da completarsi con delle
    «finezze», cioè con la resa (a volte davvero micrografica) di ogni minima sottigliezza percettiva.
    Stima minima €6000
    Stima massima €9000
  • Joinville Antoine Victor Edmont Madeleine (Parigi 1801-1849)
    Zampognaro
    olio su tela, cm 49x36,5
    firmato e datato in basso a sinistra: «E. Joinville 1831» e iscritto in basso a destra: «Naples»

    Provenienza: Coll. privata, Napoli
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Scoppetta Pietro (Amalfi, SA 1863 - Napoli 1920)
    Ragazza amalfitana con cesto
    olio su tela, cm 40x26
    firmato in basso a destra: P. Scoppetta
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Mattej Pasquale (Formia 1813-Napoli 1879)
    Paesaggio con carretto
    olio su tavola, cm 12x18
    Stima minima €3000
    Stima massima €4000
  • Vervloet Franz (Malines, Belgio 1795 - Venezia 1872) Banchina assolata
    olio su tela, cm 16,5x24
    Stima minima €6000
    Stima massima €8000
  • Migliaro Vincenzo (Napoli 1858 - 1938)
    Viandanti
    olio su tavola, cm 32x19
    firmato in basso a destra: V. Migliaro
    a tergo datato e iscritto: Al Signor Panetta, Zio Gianni, lì 26/2/81

    Bibliografia: D.Di Giacomo, Vincenzo Migliaro Il pittore di Napoli, Ianieri Editore, Pescara, 2006. p. 59

    Al Real Istituto di Belle Arti a partire dal 1875 (due anni dopo la frequentazione dello studio di Stanislao Lista), nel 1877 il
    giovane Vincenzo Migliaro già conquistò il secondo posto (con una “Testa di donna” oggi in deposito presso Capodimonte)
    ad un concorso nazionale indetto dal Ministero della Pubblica Istruzione: la vittoria gli consentì nel corso del successivo
    anno (come ricorda Alfredo Schettini) un breve soggiorno a Parigi, dove trascurò per lo più il dibattito sugli Impressionisti
    (guardando invece ai grandi maestri del passato esposti al Louvre) ed ebbe modo di conoscere Giuseppe De Nittis e Giovanni
    Boldini.
    A questa sortita estera, o almeno alle suggestioni da essa scaturite, va ascritta senza ombra di dubbio la piccola tavola proposta,
    in cui per l’appunto Domenico Di Giacomo in una recente pubblicazione vi ha perspicacemente riscontrato un «vago sapore
    boldiniano»; le pennellate, foriere di un effetto potentemente dinamico, ricordano in effetti le soluzioni del celebre pittore
    ferrarese, e diremmo noi pure alcune del De Nittis, il quale al tempo (trasferitosi stabilmente a Parigi da almeno dieci anni)
    aveva già pienamente metabolizzato tanto l’esperienza realista della “Repubblica di Portici” che quella macchiaiola fiorentina.
    Il soggetto pure rimanda direttamente alle attività della raffinata vita parigina, discostandosi nettamente dai vicoli napoletani
    notoriamente tanto amati dal Migliaro per ricordare piuttosto le opere di autori (oltre a quelli già citati) quali “Lord” Mancini
    o il più tardo Carlo Brancaccio.
    Stima minima €6000
    Stima massima €8000
  • Volpe Vincenzo (Grottaminarda, AV 1855 - Napoli 1929)
    Nel golfo di Napoli
    olio su tela, cm 63,5x35
    firmato in basso a sinistra: V. Volpe
    Stima minima €1800
    Stima massima €3200
  • Carelli Gonsalvo (Napoli 1818 - 1900)
    Marina di Vietri
    acquerello su carta, cm 46x57
    firmato e iscritto in basso a sinistra: Gonsalvo Carelli Vietri
    Stima minima €2600
    Stima massima €3500
  • La Volpe Alessandro (Lucera, FG 1820 - Roma 1887)
    Pastorella con pecore
    olio su tela, cm 70x135
    firmato in basso a destra: A. La Volpe

    Bibliografia: Ottocento Catalogo dell'arte italiana Ottocento- Primo Novecento N 41 Metamorfosi Ed. Milano 2012 tav. a colori
    Stima minima €7000
    Stima massima €13000
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